Frank Gehry – Guggenheim museum di Bilbao

di Giammaria Maffi

Sembra ormai irreversibile la tendenza di trasformare l’idea classica di museo -inteso come una scatola funzionale per le necessita’ espositive- in un qualcosa di piu’ sontuoso e scenografico, che cattura l’interesse prima ancora per le sue forme che per il proprio contenuto. L’introduzione nella progettazione della volonta’ di sorprendere lo spettatore fin dal suo ingresso in uno spazio per l’arte contemporanea, si deve indubbiamente all’intuito e al genio di Frank O. Gehry, il quale, con un’operazione mastodontica, ha risollevato in un colpo solo le sorti dei luoghi pensati per l’arte e lo skyline di una citta’ come Bilbao.
Questa trasformazione nasce dal bisogno di nuove spazialita’, piu’ fluide e magari capaci di una continua mutazione per accogliere l’irrequieta arte d’oggi; ma e’ anche figlia del desiderio di creare luoghi carichi di prospettive mai pensate finora, ovvero di spazialita’ che giocano con l’intorno e in qualche modo ridono un po’ di se’, o piu’ profondamente cercano di essere luoghi d’incontro, punti di vista privilegiati sulla citta’ e sulla realta’ che li circonda.
Il Guggenheim di Bilbao, ha molto dell’idea di luogo che parla alla citta’ e con essa si confronta, mentre camaleonticamente cambia forma secondo l’evento museale che vive. Ultimato nel 1997, il complesso museale e’ stato il punto di svolta nonche’ di maturazione della poetica di questo grande architetto americano; l’opera di Gehry -vincitore di un concorso ad inviti tra cui spiccavano fra gli altri i nomi di Arata Isozaki, Zaha Hadid e dello storico gruppo olandese Coop Himmerbau-, di fatto, ha recepito l’influenza delle nuove arti visive e se n’e’ impossessata costituendosi opera scultorea essa stessa, una grande installazione o meglio macchina scenica pensata apposta per l’arte e per il luogo che la ospita.
Tralasciando di parlare dell’immenso indotto che un’operazione del genere ha procurato per Bilbao e per la fondazione Guggenheim -tale da poter far dire ad entrambi d’essere gia’ rientrati degli ingenti costi di espropriazione delle aree preposte al progetto, oltre che per la costruzione stessa- e’ importante notare come un tale intervento abbia rivitalizzato tutto un tessuto urbano da tempo ormai dismesso e contemporaneamente abbia ridato vigore all’immagine della citta’, duramente compromessa dalle vicende di politica interna. Viene quindi subito in mente, al suo scorgersi in lontananza, l’idea che tale edificio possa essere una sorta di “guardiano” per Bilbao, un vero e proprio nume tutelare sceso dall’alto per proteggerla; e a sottolineare questo c’e’ la presenza, sul piazzale d’ingresso, dell’ironica scultura fatta d’arbusti e fogliame a mo’ di cagnolino gigante di un grande mattatore americano dell’arte contemporanea: Jeff Koons. Cosi’ ci si incomincia a rendere conto che quest’architettura e’ al tempo stesso segno urbano ed extraurbano per la citta’, e’ una costruzione che si proietta all’esterno e simultaneamente invita ed entrare al suo interno.
Passo dopo passo, percorrendo il nuovo ponte d’accesso all’area, si viene come attirati tra le pieghe dei suoi volumi articolati fino alla struttura centrale, una sorta di gigantesca guglia che rende il complesso simile ad una sorta di cattedrale gotica per la nuova religione dell’arte contemporanea. Non spaventi il paragone, ma in fondo non fu lo stesso Kandinskij a parlare dello spirituale nell’arte?
Ecco allora crearsi attraverso l’elemento simbolico del ponte il tema del dialogo con la citta’, ma anche del suo superamento, un invito a lasciarsi alle spalle il resto per compiere quel passo che porta a scavalcare un elegante segno d’acqua -pensato per proteggere o meglio differenziare il tessuto urbano dalla novita’ di questo nuovo, moderno segno architettonico-, e cosi’ attraversare quasi timorosi l’ampio sagrato antistante l’ingresso per introdursi nella hall principale, dove appunto come per le strutture gotiche, anche qui si e’ spinti a guardare verso l’alto. E’ una selva piena di costole d’acciaio e vetro ad accogliere il visitatore, sempre pronta ad interagire con l’ogni volta diverso e sorprendente allestimento di qualche installazione della collezione Guggenheim.
Una volta entrati si inizia a vivere un’esperienza coinvolgente in una sorta di spazio iperfunzionale che gioca a diverse scale e su vari livelli con l’arte esposta, quasi rivaleggiando con essa, e come essa altrettanto provocatorio e sorprendente. Verrebbe da dire di essere finiti in una sorta di Disneyland dell’arte, un multiforme scenario dantesco pensato apposta per sedurre il visitatore, con le sue forme complesse e contemporanee, al tempo stesso attuali e simultanee agli occhi di chi le osserva.
Quasi che la pittura gli stia stretta, il museo fagocita quanto di più eterogeneo il mondo dell’arte oggi propone -siano installazioni o opere scultoree, serigrafie o fotografie, performances o video-, nel bisogno di rappresentare il piu’ possibile i territori che gli artisti attraversano e promuovono, ma anche assumendo un ruolo attivo e propositivo, aspirando a generare a sua volta altre istanze d’arte e proposte per il mondo contemporaneo.
Gehry indubbiamente ha aperto una strada nuova che ha rivitalizzato l’architettura contemporanea, ma al tempo stesso ha promosso un’idea molto rischiosa di architettura pensata anch’essa come opera d’arte, perche’, se non ben applicata, rischia di risultare fine a se stessa ed allontanarsi dal dare una risposta a quello che le viene da sempre in primis richiesto: quello di creare spazi che soddisfino i bisogni quotidiani dell’uomo e che siano soprattutto spazi funzionali d’uso collettivo.

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