Breve viaggio all’interno del vulcano laziale

di Stefano Abbadessa Mercanti

Molti vulcani sono spenti, silenziosi ed immobili da secoli. Molti dormono da un tempo che nessuno di noi ricorda e tanti altri continuano ad esplodere.
Le tragedie per gli uomini che, più o meno consapevoli, convivono con loro fanno parte delle nostre vite da sempre.
Quante volte ci chiediamo perchè abbiano costruito le loro case in un luogo così pericoloso e quante volte, però, noi stessi siamo saliti su di un cratere acceso e minaccioso per osservarlo da vicino.
I vulcani sono stati nella storia immagine delle divinità e luoghi del mistero e della magia.
Il mistero del cuore della terra che arde sotto di noi ci accompagna tra il fascino e la paura delle cose che rimangono sopite per tanto tempo e che, ad un certo momento, esplodono con la furia che travolge e, a volte, distrugge.
Alcune altre, invece, rivelandone l’essenza, donano la vita.
Esiste un vulcano a sud di Roma, anzi un complesso vulcanico composto dalla sovrapposizione di diversi crateri che per millenni hanno caratterizzato l’attività tellurica del territorio  che oggi definiamo “Colli Albani”.
Normalmente si è abituati ad osservare questi monti da Roma e la visione che si ha è di un insieme montuoso a forma conica con la vetta di Monte Cavo che s’innalza al cielo, con i suoi 949 metri di altezza dalla pianura della Campagna Romana.
Ma il cosiddetto massiccio del vulcano laziale è qualcosa di più complesso ed esteso di quanto si pensi.
L’inizio dell’attività vulcanica che diede vita ai Colli Albani risale a circa 700.000 anni fa ed in diverse fasi si formò il doppio cratere che ancora oggi, con uno sguardo attento, possiamo percepire.
Se ci capita di atterrare all’aeroporto di Ciampino ed abbassiamo lo sguardo poco prima di toccare terra, vediamo realmente il grande cratere esterno, a forma di ferro di cavallo, del vulcano laziale.
Possiamo individuarlo partendo dalla Via dei Laghi, all’altezza di Nemi:  da qui inizia il Monte Artemisio, lungo frammento del cratere, che delimita i Pratoni del Vivaro. Questi si trovano all’interno della caldera mentre il versante del monte che guarda Velletri, è all’esterno. Il cratere continua con una serie di alture, tra le quali Monte Fiore ed altre colline, su cui più avanti si trova Rocca Priora sino ad arrivare al Monte Tuscolo.
Da qui i “segni” del cratere si perdono, a causa di una serie di eruzioni avvenute in diverse epoche, che hanno frammentato il grande cratere nelle zone che vanno orientativamente da Grottaferrata a Nemi. Se vogliamo immaginare quest’ultima parte del cratere dobbiamo unire idealmente il percorso che dalla vetta del Monte Tuscolo scende improvvisamente nel territorio di Frascati e continua per quello di Grottaferrata e così via, attraverso i territori di Marino, Castel Gandolfo, Albano, Ariccia e Genzano.
Durante questa fase, che da alcune datazioni sembrerebbe essere di circa trentasettemila anni fa, si sarebbero formati anche i laghi Albano e di Nemi.  Questi sono due crateri laterali riempiti dalle acque delle falde superficiali.
Altre eruzioni interne al grande cratere hanno generato un secondo cratere più piccolo che possiamo individuare  nella zona tra Monte Cavo ed i Campi d’Annibale nel territorio di Rocca di Papa.
Il grande vulcano laziale, ormai spento da millenni, è oggi una vastissima area abitata, con tanti paesi che si trovano all’interno del vecchio cratere ed altrettanti all’esterno, tra folti boschi e grandi pianori verdi.
Sin dall’antichità sono stati luogo di vita ed attraversamento per le genti che da Roma si dirigevano a sud. Varie strade hanno attraversato ed attraversano questo territorio.
Le più importanti arterie dell’epoca antica, che ancora oggi esistono, verso il sud sono: la Via Latina, oggi identificabile nel tracciato dell’attuale via Anagnina che attraversa totalmente il cratere esterno salendo e scendendo tra i colli vulcanici, e la Via Appia che tra “Antica” e “Nuova” attraversa diversi paesi dei Colli Albani, nella fascia esterna del cratere che guarda il mare.
Una alla sinistra e l’altra alla destra di Monte Cavo, centro di questa regione.
Sin dall’antichità questo monte ha avuto un valore simbolico per le popolazioni in quanto la sua altezza lo rende visibile da tutto il territorio romano ma anche da quello pontino e dagli altri circostanti.
Era il simbolo dell’unità dei popoli latini, i quali vi realizzarono il tempio di Giove per celebrare le feriae latinae. Durante questi eventi, i dissidi tra i vari popoli si interrompevano ed i rappresentanti delle varie genti salivano sulla vetta per sacrificare a Iuppiter un toro bianco.
Si dice che la sua vetta sia stata tagliata, spianata, per far posto al santuario di Giove. In tarda età repubblicana la via lastricata, che oggi possiamo percorrere partendo dalla strada che collega la Via dei Laghi a Rocca di Papa, era percorsa dai generali vittoriosi cui era stato concesso il privilegio di potersi recare al tempio per ringraziare il dio per la vittoria conseguita.
Oggi salendo la così detta Via Sacra, attraversando il magnifico bosco di quercie e castagni, possiamo goderci una splendida passeggiata tra natura ed archeologia.
Ma l’arrivo è tristemente interrotto da uno dei muri delle tante strutture realizzate per la trasmissione dei segnali televisivi e radiofonici.
Un nuovo dio si è impadronito di questa vetta e la devasta con una mancanza di sensibilità che ci fa chiedere, innanzitutto, dove siano le istituzioni che “proteggono” il territorio.
Cartelli minacciosi vietano qualsiasi fotografia ed ingresso. I recinti di cemento si sovrappongono indifferentemente alle vecchie mura ed un campanile stracolmo di antenne svetta tra ruderi antichi e contemporanei.
Ad est di Monte Cavo, all’interno della caldera a circa cinquecento metri più in basso c’è il tracciato della Via Latina. Questa venne realizzata alla fine del IV secolo a.C. e, partendo da Roma, attraversava i Colli Albani, la Valle del Sacco e del Liri ed arrivava a Capua per una lunghezza totale di 129 miglia. Lunghi tratti sono venuti alla luce, anche negli ultimissimi tempi nel territorio della Molara, tra i Comuni di Montecompatri e Grottaferrata. Il lastricato è largo circa 4 metri.
Diverse sono le diramazioni laterali, tra cui quella che porta al Tuscolo. Molto interessante sarebbe poter visitare una villa privata degli anni venti lungo l’Anagnina a Grottaferrata nei cui sotterranei, si trova un bel tratto di basolato originale e ben mantenuto.
Nel Medio Evo il nome cambiò in Anagnina in quanto, intorno al XIII secolo, la strada è stata percorsa dai quattro pontefici, tra cui Bonifacio VIII, nati ad Anagni, dove spesso soggiornavano.
Per dare un’idea della vitalità di questi luoghi riportiamo un brano del libro “Roba di Roma”, raccolta di diversi saggi ed articoli sul territorio romano dell’artista americano William Wetmore Story, intitolato “Festa a Grotta-Ferrata”.
Questo scultore, con la passione della scrittura, si trasferì a Roma nel 1856 e vi rimase fino alla sua morte nel 1895. E’ sepolto nello storico  cimitero protestante della Piramide Cestia, nel quartiere Ostiense. Riportiamo il racconto di una sua giornata trascorsa a Grottaferrata, partendo da Roma e percorrendo la Via Anagnina, “tra olmi e platani” come, ancora dal tratto della Cavona verso il centro, possiamo anche noi fare. Probabilmente se salissimo lentamente con un carretto, o magari a piedi, ci accorgeremmo di più del bel paesaggio che ci circonda. Le interessanti Catacombe “Ad Decimum” le lasceremmo alla nostra sinistra e poco dopo, dove la salita ci lascia un pò di tregua e il paesaggio si apre sulla valle a vigneti, ci accorgeremmo di essere entrati dentro la grande caldera del cratere esterno.
Così Story ricorda la sua passeggiata fuori le mura:
“C’è una grande “festa” durante la Quaresima nel piccolo centro di Grotta-Ferrata, paese a circa quattordici miglia da Roma. Ha luogo il 25 marzo e spesso è molto allegra e pittoresca e sempre affascinante per chi è spettatore e privo di pregiudizi.
Sin dalle otto del mattino cominciano ad incamminarsi i carretti da Porta San Giovanni ed in quasi due ore raggiungono il Monastero fortificato, ai cui piedi sorge il paese di Grotta-Ferrata. Mentre avanziamo tra nobili olmi e platani, folle di contadini riempiono la via, mendicanti gridano dai margini della strada, gli asini ragliano, le carrette sferragliano finchè, infine, arriviamo ad un grande prato che appare animato e affollato da figure vestite allegramente.  Queste si muovono avanti e indietro, come formiche sopra un formicaio. Qui si radunano contadini da tutti i paesi intorno per dieci miglia, tutti nei loro costumi festivi; lungo il sentiero che costeggia il prato e conduce alla grande porta della vecchia fortezza, gli asini si affollano producendo un  bizzarro concerto. Saltimbanchi, vestiti da arlecchino, fanno le smorfie o arringano dal marciapiede e invitano tutti al loro spettacolo.  Dall’interno dei loro baracconi si sente il suono costante di pifferi e tamburi e, attraverso la tenda sollevata, di quando in quando appare una faccia comica che scompare con uno strillo improvviso e un gesto agitato. Mentre la folla compatta si muove lentamente in entrambi le direzioni, andiamo avanti passando attraverso l’arco nel grande cortile. Qui, sotto l’ombra del monastero, bancarelle e panchine stanno in fila esponendo i prodotti della campagna, scarpe, rudimentali attrezzi agricoli, ruvide stoffe tessute dalla gente di campagna, cappelli con coccarde e rosette, scope e spazzole, oggetti fatti in casa. Quà e là articoli di un venditore ambulante di gioielli e piccoli quadri incorniciati di Madonne e Santi.
 Usciti dalla folla saliamo attraverso uno scalone di pietra fino alla passeggiata intorno ai parapetti delle mura e guardiamo in basso la scena. Com’è allegra! Intorno alla fontana, che zampilla  in centro alla corte, folti gruppi di persone si raccolgono per lavarsi, bere e riempire i loro fiaschi e orci.  Lì vicino un ciarlatano salito su di un tavolo, con una tenda alle sue spalle dipinta dappertutto con strane figure cabalistiche sta illustrando ad alta voce le virtù delle medicine, degli unguenti e la sua abilità nel cavare i denti.
Nessuno avrà più dolori di denti, orecchie, testa o stomaco se ricorrerà alle sue fantastiche promesse.
Una piccola boccetta contiene la famosa acqua che ridà la giovinezza; un’altra, la lozione che risveglia l’amore, cura la gelosia o cambia la bruttezza in bellezza. Durante tutto il tempo egli gioca con i suoi serpenti addomesticati e chiacchiera sino a seccarsi la lingua, mentre la folla dei contadini rimane a bocca aperta davanti a lui, ride con lui, e compra da lui.”*
Esistono diversi quadri od incisioni che rappresentano questo evento.
Oggi a Grottaferrata si svolge ancora la Fiera; certo non c’è più il bestiame e tanto meno Arlecchino, ma la tradizione viene rispettata.
La sensazione però, andandola a visitare, è che gli attuali organizzatori siano piuttosto indifferenti alla storia e sembra che dimentichino la tradizione di grande festa popolare antica che, insieme all’aspetto commerciale, sapeva essere anche evento ludico e festoso.
Continuando sulla Via Anagnina, lasciamo Grottaferrata alle spalle e ci dirigiamo verso Rocca Priora, attraversando la Molara e la così detta Valle Latina: ci accorgeremo subito che il nostro percorso all’interno della caldera è un cammino morbido ed in lieve salita tra vigneti, orti e boschi. Alla nostra sinistra il Monte Tuscolo e poi, successivamente, le altre alture  tra cui quelle dove è sorta Rocca Priora fino a Monte Fiore e poi, più in là, dove si riuniscono con il Monte Artemisio.
Tutti elementi del cratere esterno.
Se, arrivando ai Pratoni del Vivaro, continuassimo dritti sulla stessa strada, che pur rimanendo la storica Via Anagnina – Latina oggi si chiama Tuscolana, supereremmo un lungo dosso in parte scavato artificialmente, e usciremmo dalla caldera attraverso un fitto bosco di castagni. Qui ci troveremmo dalla parte esterna del cratere a sud-est in direzione di Artena.
Se invece ci dirigessimo  a destra potremmo osservare il vasto pianoro denominato Pratoni del Vivaro. Qui avremmo chiarissima la nostra localizzazione: alla sinistra il Monte Artemisio, grande cratere esterno, e alla destra il gruppo delle Faete con Monte Cavo, cratere interno.
Al Vivaro, la natura del Vulcano Laziale si esprime nella sua completezza e l’uomo è riuscito a mantenere la bellezza del luogo, non alterando particolarmente la morfologia della terra. Oggi i grandi prati verdi sono principalmente utilizzati per gli sport ippici e le passeggiate nei boschi, che salgono lungo i due crateri, sono tra le mete preferite dagli amanti della natura.
Ad est di monte Cavo, all’esterno della caldera, c’è la Via Appia Antica, detta anche Regina Viarum, la quale è stata tracciata nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio utilizzando, in parte, il vecchio tracciato dell’antica via Albana, strada dell’epoca di Alba Longa. Era la principale strada di comunicazione di Roma con il meridione d’Italia e, di conseguenza, con la Grecia e l’Oriente.
Oggi l’antico tracciato è visibile per diversi chilometri in un magnifico paesaggio e le testimonianze che lo contornano sono tra le più interessanti della nostra storia.
Tombe, mausolei, cippi e pini.
Ed ancora pini e rovi tra i massi poligonali di lava.
E sole a mezzogiorno, tra i canti degli uccelli diventati note sul pentagramma di Ottorino Respighi.
Poco prima di Albano i tracciati dell’Antica e della Nuova coincidono; poi si separano e si riuniscono per pochi metri tra Genzano e Velletri.
In alcuni tratti l’antico basolato riappare improvvisamente.
Per scomparire, poco più avanti, nelle vigne. Tra l’indifferenza degli uomini che lavorano la terra.
L’Appia Nuova attraversa tutti i paesi del versante sud-ovest: Albano, Ariccia, Genzano e Velletri.
Superato Albano c’è un grande viadotto lungo più di trecento metri ed alto sessanta che sovrappassa il vallone del Parco Chigi e che immette direttamente sulla piazza principale di Ariccia.
Al momento della penombra, quando il sole sprofonda nel mare ed i colori si accendono dell’intensità di un fuoco in spegnimento, il panorama dal ponte di Ariccia spazia lungo la Campagna Romana fino al mare ed il volgere del giorno infiamma Palazzo Chigi e la Chiesa dell’Assunta. Durante l’estate i romani, per tradizione, fuggono al fresco delle colline per trascorrere una serata tra grandi abbuffate e stornelli tradizionali.
Sono con un amico americano e mentre percorriamo la discesa che porta alle fraschette storiche, proprio sotto Palazzo Chigi, noto il suo sguardo meravigliato ed allo stesso tempo affascinato ed incredulo.
“Siamo in un film di Fellini!” esclama e all’improvviso io, da sempre abituato a questo “contesto sociale”, osservo con occhi diversi l’ambiente che ci circonda.
L’amico si riferiva alla scena della cena in strada del film “Roma”.
Come quasi sempre succede, chi viene da fuori dimostra di essere un miglior osservatore della realtà di chi la vive quotidianamente. Fellini, arrivando da Rimini, ha saputo ritrarre profondamente la città attraverso un linguaggio caricaturale ma, allo stesso tempo, drammaticamente reale. Così anche l’amico artista americano ha saputo cogliere, da quell’insieme umano vociante e divoratore di cibi in gran quantità, un interessante connubio tra sacro e profano.
Grandi tavolate colme di porchetta, vino e pecorino, tovaglie di carta e bicchieri di plastica. Gran confusione in basso e, alzato lo sguardo verso l’alto, Palazzo Chigi e la Chiesa dell’Assunta del Bernini.
La linea  del livello stradale dell’Appia che sovrasta i “grottini” sembra la materializzazione dell’orizzonte che divide la terra, intesa come elemento materiale, ed il cielo, essenza dello spirito.
Da secoli architetti ed artisti lasciano in questo territorio i segni del loro passaggio. Trovano nel rinascimento e nell’epoca barocca un terreno fertilissimo. Le nobili famiglie romane, scegliendo di intensificare l’attività edificatrice per le loro residenze estive, danno vita ad una incredibile sequenza di  ville che sovrastano ogni colle o monte dei Castelli Romani.
E l’arte del costruire e del vedere e vivere il paesaggio lascia qui alcuni tra i più interessanti esempi di ville nobiliari d’Italia.
Qui tutto in realtà è reale e materiale. La convivenza tra il popolo e la nobiltà è da sempre viva e sentita.
Poco tempo fa, parlando con l’anziano custode delle proprietà di un nobile del territorio, mi sono sorpreso della devozione che quest’uomo ha per il suo “Don”:
“ Ho servito suo nonno, poi suo padre e adesso lui. Per tre volte mi sono gettato nel fuoco per salvare le loro cose. Una volta un solaio è crollato ma sono riuscito ad uscire. Ed adesso sono qui. Guardi questa lettera, me l’ha scritta lui per ringraziarmi per come, insieme a mia moglie, abbiamo lavorato per realizzare la festa dei diciotto anni della figlia. 
Il nonno, che era uno studioso, non era solo Principe ma anche un vero signore. I contadini del feudo vivono nelle case che lui gli ha regalato insieme alle terre che lavoravano.”
Uno stesso cielo illumina mondi opposti che convivono sin dalla loro origine.
Nel parlare dei Castelli Romani è immancabile il connubio con Roma. Storicamente questi territori sono romani. Albalonga, la città pre-romana che, insieme ai Sabini e agli Etruschi, fondò l’Urbe era quasi certamente sul territorio di Castel Gandolfo. La città di Tuscolo con il suo teatro osserva interamente il territorio romano e poco più in basso, dove oggi c’è il così detto Colle delle Ginestre a Grottaferrata, c’era la villa di Cicerone. Nel medioevo nascono i primi “Castelli” dei signori romani e più tardi sorgono le splendide Ville Tuscolane. Alla fine dell’ottocento ed agli inizi del novecento l’alta borghesia romana decide anch’essa di costruirvi le proprie residenze estive.
Alcuni villaggi, come per esempio Grottaferrata nata intorno all’Abbazia di San Nilo, si trasformano in comuni autonomi e diventano luoghi di raffinata ed elegante residenza.
Così in tutto il territorio, colle dopo colle.
Questo fenomeno è, ancora oggi, un processo in continua evoluzione e l’espansione di Roma ha già, da tempo, varcato la soglia di altri comuni. Questi, a loro volta, sono diventati dei centri con una propria crescita urbana e, quasi ovunque, i confini territoriali sono evidenti solo grazie alla presenza dei cartelli stradali. Creando così una grande città dei Colli Albani, fatta di vecchi centri, i Castelli, e piacevoli periferie residenziali.
La tendenza a diventare una parte della grande periferia romana si materializza sempre di più e, molto spesso, proprio le amministrazioni comunali sono responsabili di ciò che sta accadendo.
Il pericolo di diventare un grande quartiere dormitorio della vicina metropoli è purtroppo reale e sempre più in agguato.
Nonostante tutto, le persone originarie di queste colline hanno un’identità forte e chiara. Si è riusciti a mantenere l’essenza e le sfumature che la popolazione romana ha quasi completamente perduto. E’, probabilmente, più facile oggi trovare un “romano” ai Castelli che in molti rioni di Roma.
La popolazione è da sempre combattiva e vitale. Note sono le lotte contadine, partite proprio da qui, che hanno dato dei risultati notevoli per i diritti e lo sviluppo delle povere genti delle campagne.
Ricordo un funerale lungo il corso di Albano con un corteo pieno di bandiere comuniste e le note di Bandiera Rossa cantate dalle persone in lacrime.
Ricordo la storia di Pietro che durante il periodo fascista è stato “esiliato” da Albano e mandato a vivere, con la sua famiglia composta da cinque figli, in alcune grotte sulla Via Ardeatina a Roma. In quei giorni il Duce sarebbe arrivato a visitare la città e bisognava eliminare chi poteva arrecare dei fastidi. Lui era considerato uno scomodo, uno che non abbassava la testa.
Era una persona che pur di non accettare imposizioni si fece togliere casa e “cittadinanza”.
Di queste microstorie ne esistono un’infinità ed ognuna di esse è testimonianza di un carattere vigoroso, tenace ed orgoglioso.
Questa vitalità, però, oggi produce cadute di Consigli Comunali, rimpasti continui di Giunte in eterna crisi.
E su ogni Piano Regolatore che si cerca di approvare, l’universo politico scoppia.
E in mancanza di regole forti, qualcuno ne trae beneficio.
Non il territorio e neanche la popolazione locale.
Questo vulcano è spento così da tanto tempo da non essere percepito neanche da chi vive al suo interno.
Così antropizzato da non essere più riconoscibile nella sua morfologia geologica.
Ma niente è fermo ed immobile per sempre.
L’uomo, spesso, fa finta di non sapere, di non accorgersi dei pericoli che la natura può riservare.
E chiude gli occhi creandosi l’illusione che nulla possa accadere.
L’imprevedibilità della natura è una costante che non ci abbandona ma la conoscenza dei luoghi e delle energie naturali dei territori è la condizione indispensabile per raggiungere una diminuzione dei rischi.
Si progettano nuovi quartieri, nuove case e raramente ci si chiede se si conosce profondamente il luogo in cui si interverrà.
Tra i vari problemi, uno dei più evidenti in questo territorio in cui nell’ultimo trentennio è aumentato notevolmente la popolazione e quindi le abitazioni, è quello prodotto dalla creazione di nuovi pozzi utilizzati per l’irrigazione dei giardini. Tutto ciò ha contribuito ad un abbassamento delle falde acquifere sotterranee che costituiscono la principale fonte di alimentazione dei laghi Albano e Nemi. Per questa ragione i livelli delle acque sono scesi di diversi metri e, ancora oggi, non sono stati adottati i necessari rimedi a questo fenomeno in continua evoluzione.
Una politica nazionale più attenta alle dinamiche ambientali è, sicuramente, una necessità che non può prescindere dagli sviluppi dei territori locali. Non ci si può porre il problema dell’impatto che alcune opere hanno sui territori solamente quando avvengono dei disastri ambientali.
Il vulcano laziale è ormai sopito da millenni ma l’energia di questo luogo è viva e la senti nella sua gente e nella bellezza di una natura alimentata dai tanti minerali che ne compongono la terra.
La domanda che oggi ci poniamo è se riuscirà ancora il grande vulcano ad alimentare la vita e a preservare come un nume tutelare questo magnifico territorio, pieno di splendida natura e millenaria storia, dalle piccolezze umane.

* Traduzione dal testo originale “Roba di Roma” di William W. Story, settima edizione, 1876 di Giovanni Maria Abbadessa

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