I siti archeologici di Tuscolo e Monte Cavo

di Diego Angeloni

Dirigendosi verso i territori a sud-est di Roma, ci si imbatte in un apparato montuoso costituito da un perimetro di bassi rilievi che scendono dolcemente verso il centro, dando origine a delle collinette piuttosto basse ma che subito s’arricciano e si protendono verso l’alto, a formare un massiccio montagnoso centrale, dominato da Monte Cavo, la vetta più alta.


L’insieme di questo sistema montagnoso dall’andamento circolare ha origine vulcanica. Durante il quaternario, infatti, una serie di scosse di terremoto modificarono radicalmente l’immagine di tali zone, determinando l’increspamento del suolo e provocando la formazione del cosiddetto Vulcano Laziale. L’attività esplosiva ha modellato il terreno fino a renderlo un susseguirsi di rilievi montuosi e collinari, alternati a boschi e prati, a pini e ginestre. Ciò che vediamo oggi dei Colli Albani, è dunque il risultato della stratificazione di ceneri, lapilli, scorie e di diverse colate laviche succedutesi nel corso dei millenni. In particolare, lo sfruttamento di cave lungo le pendici di Monte Salomone, in passato una delle attività economiche più redditizie dell’intera zona, permise di sviluppare l’estrazione del basalto, utile per la realizzazione dei manti stradali. Molto diffusa, fu anche l’estrazione di una pietra chiamata localmente “sperone”, caratterizzata da una forte porosità, dovuta all’azione delle fumarole del vulcano e quindi facilmente malleabile. Tale pietra, si prestava ad essere plasmata per la realizzazione di intarsi ornamentali e la ritroviamo, infatti, con il suo colore giallo intenso, e con il chiaroscuro dei suoi pori, in molte parti di resti archeologici. Inoltre, i prodotti originati dall’attività dei Colli Albani, in passato hanno alimentato una fitta attività estrattiva di materiali da costruzione, come tufi e pozzolane.
L’uomo ha potuto beneficiare fin dall’antichità di questa lunga ed intensa attività vulcanica non solo per il reperimento di materiali da costruzione, ma anche come territorio fertile da coltivare. Infatti, la natura vulcanica e la particolare composizione chimica delle rocce presenti nell’area, rendono il suolo particolarmente fertile, come testimoniato dalla diffusa presenza di vigneti che ricoprono fittissimi i fianchi dei colli. Grazie a queste condizioni geomorfologiche, tutta la zona dei castelli costituì un terreno fecondo sul quale poterono svilupparsi e proliferare le popolazioni latine. Su questi promontori vulcanici vennero costruite ricche città e monumentali templi. Dalla vallata sottostante e da tutta la Campagna Romana, l’immagine di Tuscolo con la sua rocca e i suoi templi, e subito di fronte ad essa, il Monte Cavo con il santuario dedicato a Iuppiter Latiaris, simboleggiò per molto tempo la potenza e la ricchezza che questi luoghi raggiunsero.
In particolare, la città di Tuscolo si consolidò come uno dei più influenti ed antichi agglomerati urbani sorti nel territorio dei Colli Albani, in cui nacque e si sviluppò la civiltà latina, addirittura circa 500 anni prima della fondazione di Roma. Oggi la vegetazione spontanea che ha ricoperto le antiche vestigia, rende il sito velato, appena percepibile al di sotto delle spighe che all’arrivo dell’estate lo rivestono completamente. L’antico centro urbano si componeva di due aree indipendenti: la rocca e la città. La rocca, posizionata sul monte, costituiva la zona del primo insediamento ed era dunque la parte più antica. Ma essa era principalmente una postazione strategica, sia come punto d’osservazione, dato che permetteva una visuale libera su tutti i lati, sia perché offriva anche un posto sicuro contro gli attacchi nemici, circondata com’era da dirupi e zone scoscese che ne rendevano impervio l’accesso. La città, invece, più a valle, costituiva una sorta di ampliamento dovuto alla crescita demografica della popolazione.
Se si visita oggi l’area archeologica, il solo monumento immediatamente distinguibile per forma e rigore geometrico, è senz’altro il Teatro. Poco ne rimane, non ci sono più le statue né le colonne che lo adornavano, ma ciò che resta è comunque sufficiente per permetterci di ipotizzare, ognuno a proprio modo, una ricostruzione tutto sommato verosimile. Fu costruito nel I secolo a.C. in pietra vulcanica sfruttando il naturale pendio del colle ed è caratterizzato da un impianto planimetrico diverso persino dagli emicicli dei santuari di Gabii, Praeneste e Tibur. Denunciando dunque il suo valore di architettura sperimentale, questa costruzione è importante sia per il suo impianto planimetrico, che per essere anche uno dei primi esempi di teatro in pietra del Lazio. La cavea poteva accogliere 1.500 spettatori ed era suddivisa, nella parte inferiore, in quattro cunei percorsi da tre scalette per l’accesso del pubblico. La parte superiore, andata ormai distrutta, secondo la ricostruzione fatta nel XIX secolo da L.Canina, sarebbe stata divisa in nove cunei e cinta da un portico. Nei resti della scena, di pianta rettangolare, si notano tre accessi di cui uno centrale e due laterali, che in origine erano adornati dalle statue di Oreste, Pilade, Telemaco, Telegono e del poeta Difilo. Gli spettatori che sedevano sui gradini della cavea, oltre a godersi le rappresentazioni teatrali, si trovavano immersi in un ambiente paesaggisticamente unico, avendo alle spalle la rocca e davanti a loro il panorama di tutta la valle albana, delle pianure latine e, in lontananza, del mare.
Una piazza circondata da colonne e portici, proprio davanti al teatro, costituiva il Foro, il centro nevralgico della città. In età arcaica quest’area si identificava in un grande spazio aperto, delimitato da un incrocio di assi viari che costituivano i percorsi della transumanza, tali da farci immaginare in questa zona un mercato che col tempo evolverà nel foro, come accade anche in tante altre città italiche. Tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. in tale incrocio di flussi commerciali e umani, venne realizzata, attraverso dei muri di contenimento, una grande platea sulla quale venne costruito il primo foro di Tuscolo. Intorno al 300 a.C. infatti, la città poté usufruire di una serie di benefici derivanti da alcuni importanti avvenimenti, tra cui la concessione dello statuto municipale nel 381, lo scioglimento della Lega Latina nel 338 e l’ascesa al consolato, per la prima volta, dei membri delle più importanti famiglie tuscolane. Appare dunque pienamente plausibile che la città avesse un proprio spazio pubblico organizzato. Successivamente, nel corso della prima metà del I secolo a.C., il foro venne completamente rivoluzionato ed adattato ai nuovi dettami urbanistici volti a dargli unità e riconoscibilità attraverso la creazione di un portico perimetrale alla piazza. Tre edifici monumentalizzavano, inoltre, l’acceso al foro: un compitum, sede del collegio dei Mercuriales; un edificio rettangolare, proba­bilmente un tempietto e un sacellum ad Ercole. Completava l’insieme una basilica, della quale si sono conservate nell’area archeologica due basi attiche delle colonne dell’edificio. Gli scavi effettuati nell’area, hanno inoltre fornito molti frammenti di colonne scanalate e diversi capitelli in peperino, che hanno permesso di restituire l’ordine ionico dell’edificio. Si sono recuperati anche una grande quantità di statue e busti di epoca repubblicana ed imperiale, ora sparsi in parecchi musei nazionali ed esteri ed in molte collezioni private. La basilica era strutturata in tre navate, con un corpo centrale, lo spatium medium, a doppia altezza. L’edificio era probabilmente chiuso su tre lati; il quarto lato, dominato dal colonnato ionico, era rivolto verso il foro. Queste attività di rinnovamento e di trasformazione della città di Tuscolo rientrano nel processo di municipalizzazione che, da Silla in poi, coinvolge molte altre città italiane; un cambiamento, caratterizzato dal rifacimento delle mura, dalla riforma dei capitolia, dal rinnovamento dei fora, con particolare attenzione a curie e basiliche, dalla costruzione di teatri e di terme pubbliche e di santuari extraurbani. A Tusculum, molti degli elementi che caratterizzano questo mutamento sono stati individuati e studiati, mancano però le terme e la curia, sicuramente presenti nell’area, ma ancora da scoprire.
La Rocca di Tuscolo rappresentava, con i suoi 675 metri, il punto più alto della città, e quindi anche l’area più in vista e solenne, quella, insomma, più adatta ad ospitare edifici sacri. Qui vennero costruiti i templi di Giove e dei Dioscuri, come sappiamo da ritrovamenti epigrafici e dalle testimonianze di Livio, Cicerone e Macrobio. Si può ipotizzare che anche un altro luogo di culto sia stato ospitato sul rilievo montuoso, si tratta del Tempio di Iside, divinità molto popolare a Roma fin dal I secolo a.C. Nel Medioevo, inoltre, venne costruito, sempre in quest’area, il Palazzo Baronale dei Conti di Tuscolo, in grado di accogliere papi, re, imperatori e le loro corti. Di tale succedersi e stratificarsi di storia, a parte qualche tratto in opera cementizia, non rimane nessuna testimonianza tangibile. Con la loro posizione privilegiata, questi monumenti dominavano l’intera area dei castelli romani, conferendo al sito la massima sacralità; ma ciò lo esponeva anche ai danni provocati dalle forze naturali, come il violento fulmine, che come ricorda Cicerone nell’opera De Divinatione, scoperchiò il Tempio di Giove.
Ciò che rimane dell’antica città è oggi sommerso dalla fertile vegetazione, capace di germogliare anche tra gli sterili anfratti di pietre squadrate, che, se per un verso accentua quell’immagine della rovina romantica immersa nel verde che conferisce fascino al luogo, tuttavia ne è anche la causa del suo degrado. I massi vengono sollevati e spostati dalle radici; spaccature e crepe fendono basamenti e muri di antiche costruzioni; il muschio ricopre con la sua patina iscrizioni e vecchie modanature; la virulenza delle piante, col tempo, elimina qualsiasi elemento dotato di regolarità geometrica riducendolo a puro frammento di roccia. Eppure, anche quell’esplosione dei verdi e dei colori variegati dei fiori tra le rovine, è un’immagine forte anche se piena di contraddizioni. E’ infatti insensato perpetrare l’immagine di un sito archeologico, costruendola intorno a luoghi comuni e stereotipi, modellati su misura per la fruizione di un consumo di massa. Se il rigoglio della natura diventa parte del valore di un sito, esso ne diverrà ben presto un alibi all’incuria.
Ma non solo piccole piante o arbusti sono causa di degrado; grazie infatti alla sua intrinseca fertilità, il terreno vulcanico ha permesso la crescita di vere e proprie foreste su tutte le pendici del Vulcano Laziale. Originariamente la vegetazione era costituita da boschi misti, caratterizzati da alberi di faggio, querce, tigli, aceri, carpini, frassini, lauri e noccioli. La presenza dell’uomo, gradatamente, determinò un profondo cambiamento del paesaggio; prima si rese necessario avere a disposizione ampie zone da destinare a pascolo, poi furono le zone agricole a prendere il sopravvento a scapito dei boschi. Nei secoli XVI-XVII, periodo nel quale si cominciarono a costruire le Ville Tuscolane, il disboscamento aumentò considerevolmente per l’esigenza di avere ampi spazi liberi per i giardini e per le coltivazioni agricole. In particolare, si incrementò la coltivazione dell’ulivo, della vite e soprattutto del castagno, oggi l’albero più diffuso, a scapito di tutte le altre specie arboree. Il castagno venne privilegiato per motivi economici poiché cresce con estrema rapidità e le castagne, per molto tempo, sono state l’alimento principale di gran parte della gente di queste aree.
Un altro monumento nascosto dalla fitta vegetazione è il Santuario extraurbano dedicato a Giove, che costituisce uno dei più noti monumenti dell’antica Tusculum. Si ergeva su una spianata che, affacciandosi sulla via Latina, godeva di un suggestivo punto di vista sulla vallata antistante. Il complesso è sempre stato oggetto di studio da parte di ricercatori ed eruditi e le sue imponenti strutture sono state per anni indagate ed ammirate. A metà del Cinquecento il complesso venne erroneamente identificato nella “Villa di Cicerone”; le ipotesi furono molte, ma questa risultò la più convincente. Nella prima metà dell’ottocento, in seguito a degli scavi, venne ritrovata una statua acefala, arbitrariamente restaurata con una testa dell’imperatore Tiberio. Cosicché si avanzò una seconda attribuzione e il complesso prese il nome di “Villa di Tiberio”.
Thomas Ashby, alla fine dell’ottocento, propose un’ulteriore interpretazione, attribuendo i resti ad un santuario extraurbano dedicato a Giove, che doveva costituire parte integrante del circuito dei grandi santuari tardo-repubblicani del Lazio (Giove Anxur a Terracina, Ercole Vincitore a Tivoli, Fortuna Primigenia a Palestrina). La grande sistemazione monumentale del complesso, nella sua forma più imponente, risale alla metà del I sec. a.C. Le caratteristiche formali del podio del tempio del santuario di Tusculum e le sue dimensioni possono essere paragonati a quelle degli altri edifici sacri dei vicini santuari del Lazio meridionale. Da un ulteriore confronto basato sui rapporti di estensione planimetrica di questi vasti complessi, se ne deduce che il santuario tuscolano, che si estende su di un’area di circa 8 ettari, non è paragonabile alle monumentali aree sacre di Nemi, Palestrina e Tivoli, ma è comunque addirittura più grande del santuario di Giove Anxur a Terracina e più o meno equiparabile a quello di Gabii.
L’area sacra si sviluppa su una vasta platea sulla quale sono sparsi i resti dell’antico tempio. Di tale edificio purtroppo oggi rimangono solo due blocchi in cementizio che costituivano parte del pronao e della cella del grande tempio. Queste strutture erano sorrette da monumentali strutture di sostegno che costituiscono la parte meglio conservata del santuario e grazie alle quali si può ricostruire lo splendore dell’area. Proprio le dimensioni dei blocchi di tufo e gli spessori murari rafforzano l’importanza e la monumentalità del tempio. Tali sostruzioni sono organizzate intorno ad un corpo centrale, formato da una serie di ambienti voltati suddivisi tra di loro da un lungo corridoio centrale. Ortogonalmente a questa struttura centrale sono disposti vari ambienti laterali, su entrambi i lati del terrazzamento. Ciò che rimane di questi spazi coperti da volte a botte, costituisce la parte più spettacolare del sito. Le volte che racchiudono gli ambienti a monte del terrazzamento sono ancora pressoché intatte, la loro funzione di individuazione degli spazi è fondamentale per trasmetterci l’idea dell’imponenza che aveva l’edificio. Tenuti in pessime condizioni, infestati dalle erbacce e dall’immondizia, reclamano il rispetto di cui hanno goduto in passato.
A partire dal Medioevo, si individuano vari periodi di occupazione del sito che accoglie all’interno dei ruderi dell’antico santuario, una necropoli. Successivamente, come potrebbe far supporre la presenza di elementi a carattere domestico come focolari, l’area potrebbe essere stata occupata da strutture abitative. Una serie di stratificazioni dunque, che permettono di ricostruire la storia del sito. Concetto, quello di stratificazione, di fondamentale importanza, poiché condensa nel suo significato il trascorrere di anni, il sommarsi di eventi, di catastrofi naturali, così come di distruzioni operate dall’uomo. Ma ciò che all’archeologo può apparire illuminante dall’analisi degli “accumuli di storia”, per un semplice appassionato possono risultare incomprensibili. Lasciare in vista tutti i periodi storici emersi in uno scavo, rende quest’ultimo un ammasso di reperti, incapaci di farci ricostruire idealmente un monumento. Certo presi singolarmente sarebbero senz’altro non privi di valore, ma ammassati sembrerebbe di trovarsi nel deposito di un museo. Il fine non è di “semplificare” un sito o renderlo leggibile ai più, rimuovendo gli strati di storia meno interessanti, si tratta invece di evitare la semplice ricostruzione archeologica e tendere invece a produrre nuovi significati, rifondando un luogo, facendone affiorare le tracce, che, riappropriandosi del luogo ne lascino immaginare l’essenza passata. Il problema non è dunque quello di mantenere un reperto archeologico intatto ed intoccabile come una reliquia, ma piuttosto di attuare una opportuna selezione che sia capace di stabilire un ponte con il passato. Ci sono però monumenti in cui la successione del tempo non ha creato giustapposizioni lasciando vedere intatta l’essenza di una testimonianza archeologica. E’ questo il caso del santuario stesso o anche dell’anfiteatro che si insinua su una curva tracciata dalla strada che porta all’odierna Tuscolo. Costruito intorno al II secolo d.C. fuori delle mura urbane, in parte in muratura e in parte addossato alle pendici del colle, i suoi resti, si intravedono appena ai bordi della strada moderna, affiorare dal fitto bosco. I resti sono ben pochi e gli alberi e le loro radici hanno fatto la loro parte, però, una volta individuata quella conca di forma ovale scavata nel terreno, l’immagine dell’antico luogo di spettacolo, la sua essenza, riemerge.
Nelle vicinanze si incontra poi la cosiddetta “Strada dei sepolcri”, così chiamata perché lungo il tracciato ancora pavimentato con i basoli si trovano i ruderi di alcune costruzioni funerarie (Colombario e sepolcro di Viniciano), a testimoniare dell’usanza dei romani di seppellire i defunti all’esterno della cinta abitata. Questa strada, era una antichissima via di transumanza che, partendo dalla Via Latina (l’attuale Anagnina), e mettendo in comunicazione la Valle del Sacco con le pianure laziali, conduceva a Tuscolo.
Grazie alla presenza sparsa su tutto il rilievo del Tuscolo di reperti di piccole e grandi dimensioni, di forme a volte riconoscibili e mentalmente ricostruibili, altre volte assimilabili a semplici massi rocciosi, si può ricostruire l’antico splendore della città di Tuscolo, il susseguirsi di grandiosi luoghi di culto e ricche ville appartenenti a poeti e letterati.
E’ singolare come luoghi così importanti, intere città, finiscano per essere completamente seppellite sotto terra. In una stessa porzione di terreno apporti e sottrazioni di terra per sostruzioni o rinterri, eventi naturali causa di frane che ricoprono interi edifici e ancora catastrofi capaci di far scomparire in poco tempo intere aree popolate. Se si potesse monitorare l’evoluzione di una determinata area, questa non sarebbe mai statica ma si presenterebbe come un continuo alzarsi e livellarsi, coprirsi e scoprirsi. L’operazione di riportare alla luce un reperto archeologico non deve però essere considerata come una semplice operazione di sottrazione, di rimozione di terreno e detriti, di superfetazioni e aggiunte; fondamentale è anche l’operazione di addizione, cioè di ricostruzione tridimensionale del sito. Non necessariamente questa è una procedura che possa eseguire solo l’archeologo grazie alle sue cognizioni tecniche e culturali. Quando capita per esempio di imbattersi nei resti delle imponenti mura che circondavano Tuscolo e la sua Rocca, chiunque può immaginare l’impressione di grandezza e maestosità che offrivano un tempo, quando, ergendosi sull’alto rilievo vulcanico, erano visibili da tutta la pianura romana.
Oramai lo scorcio più suggestivo non è più quello che si percepiva un tempo dalla pianura, ma quello che si gode proprio dal Tuscolo stesso. Guardando dalla spianata dell’antica acropoli verso sud-ovest, si distingue subito il profilo di Castel Gandolfo, con la cupola berniniana di San Tommaso da Villanova ed il massiccio palazzo pontificio con le calotte dell’Osservatorio. Nettissima, in lontananza, la direttrice dell’Appia infligge un taglio netto alla pianura romana fino a perdersi nella periferia dell’Urbe. Procedendo con lo sguardo, si intravedono all’orizzonte i riflessi della sottile lama del mare. E’ poi la volta delle ferite identificate dai due aeroporti di Ciampino e Fiumicino, ai quali seguono le ormai basse colline, un tempo rilievi vulcanici, dei Monti della Tolfa e Ceriti. Si intravedono poi i Monti Sabatini, che accolgono il grande lago di Bracciano e i Monti Cimini, dall’inconfondibile profilo di origine vulcanica, che racchiudono il lago di Vico. Mentre tutti questi apparati vulcanici del Lazio sono caratterizzati da almeno un lago craterico, l’edificio dei Colli Albani, che si presenta con una spazialità ed una architettura diversa, è caratterizzato dall’avere al suo interno non un lago ma un secondo cratere, identificabile con il rilievo di Monte Cavo. I Cimini rappresentano l’ultima catena montuosa di origine vulcanica che il nostro sguardo intercetta dalla cima del Tuscolo, i successivi rilievi sono calcarei, d’origine sedimentaria. Il primo che si riconosce è la mole solitaria del Soratte, che si staglia sulla Campagna Romana, con i suoi modesti rilievi, accentuati però dalla sua posizione isolata. Per finire, i Monti Sabini chiudono il perimetro dell’Agro Romano.
Ma è il rilievo di Monte Cavo, che si staglia proprio dinanzi al Tuscolo, a dominare il paesaggio.
Queste alture, al tempo dei romani erano considerate sacre e inviolabili, qui l’antico popolo italico aveva innalzato un santuario dedicato a Iuppiter Latiaris, che dominava con la sua imponenza e centralità, tutta la zona dei Castelli Romani. Monte Cavo costituisce il centro esatto della caldera vulcanica laziale, si capisce dunque la posizione strategica del tempio. Oggi l’area non gode, purtroppo, dello stesso rispetto di un tempo, è, infatti, violata da una selva di ripetitori e altre costruzioni che ne deturpano la cima. Qui, così come in altri siti di uguale importanza, la responsabilità del degrado non va attribuita tanto alla speculazione economica, ma va imputata, piuttosto, alla mancanza di una cultura del paesaggio, della quale la speculazione è solo la diretta conseguenza. La capacità di saper distinguere un luogo dotato di una sua singolare fisionomia, da un “non-luogo” costituisce il punto di partenza per una consapevolezza in grado di affrontare le valenze intrinseche di un territorio.
Il Santuario è quasi del tutto andato distrutto, ne rimangono solo alcuni blocchi riquadrati di pietra sperone che ne individuano il perimetro, oltretutto disposti attualmente fuori posto. Tali blocchi, scoperti durante gli scavi effettuati nel 1929, non permisero tuttavia di individuare resti relativi al tempio vero e proprio, ma portarono alla luce solo fondazioni di costruzioni minori, per cui la presenza del grande tempio rimane una testimonianza legata esclusivamente alle fonti.
Sulla vetta del monte si riunivano i Latini, gli Equi e i Volsci per pregare e rendere gli onori a Giove e per festeggiare l’alleanza raggiunta tra le città. Latino Silvio, re della città di Alba, inviò, infatti, una sua delegazione di cittadini presso le altre città latine al fine di stipulare una confederazione, i cui scopi erano sia religiosi che di solidarietà. I rappresentanti di tale congregazione si riunivano periodicamente in varie località del loro territorio per consumare sacrifici in onore delle divinità. Nel periodo delle “Ferie Latine”, in particolare, si riunivano sul Monte Albano e là sacrificavano in onore di Giove Laziale un toro dalle carni bianche che veniva prima arrostito e poi diviso tra i rappresentanti delle città sorelle. Si trattava, quindi, di un culto volto a rinsaldare i vincoli religiosi, politici ed economici che univano le antiche popolazioni latine e il cui momento di maggior prestigio coincise con il periodo precedente all’affermazione della supremazia di Roma. Il tempio conobbe il maggior sfarzo sotto il regno del re Tarquinio il Superbo, poiché il sovrano intuì l’importanza della religione e se ne servì per rafforzare l’accordo politico sottoscritto da 47 città di provenienza diversa. Nel 507 a.C. circa l’edificazione del tempio di Iuppiter Capitolinus sul Campidoglio costituì l’affermazione dell’ormai conquistata supremazia di Roma sulle popolazioni latine e andò sostituendo quello sul Monte Albano. Il Tempio di Giove a Roma veniva utilizzato per celebrare il trionfo dei condottieri, quello di Mons Albanus era invece riservato alle ovationes concesse a chi era riuscito a vincere il nemico più con l’arte della diplomazia che con le armi, oppure a chi era stato negato il trionfo sul Campidoglio. Si raggiungeva il tempio di Giove Laziale percorrendo la Via Sacra che deve il suo appellativo proprio al fatto che conduceva al santuario e perché, in epoca repubblicana, serviva per le ovationes riservate ai condottieri romani. La denominazione di “Via Sacra” o “Via Trionfale” è però di età moderna, è probabile invece che il nome antico fosse diverso, e più precisamente Via Albana, poiché conduceva al Mons Albanus, l’antica denominazione di Monte Cavo. La Via Sacra era un diverticolo per raggiungere, dalla Via Appia, il Santuario. La strada partiva da Ariccia, seguiva la sponda est del Lago Albano, toccava Palazzuolo e quindi saliva fin sulla cima di Monte Cavo. Si presenta ancora pressoché intatta nella sua originaria pavimentazione nel tratto compreso tra la Guardianona, antico casale situato sulla moderna via dei Laghi, e la vetta del monte. La Via Sacra, da sola, giustifica un’escursione, avendo modo di osservare le modalità costruttive di una strada di epoca romana ancora perfettamente conservata per buona parte del suo sviluppo. La via, perfettamente selciata con lastroni di basolato, manteneva per tutto il suo percorso una larghezza superiore ai 2.50 metri ed era fiancheggiata da marciapiedi in peperino. Caratteristica dell’antico tracciato, era il fatto che non presentava i segni del consumo dovuto alle ruote dei carri, essendo un itinerario sacro, doveva necessariamente essere percorso a piedi. Percorrere la Via Sacra costituisce un viaggio a ritroso nel tempo anche per quanto riguarda la vegetazione. Infatti, piccole porzioni di bosco misto si possono ancora vedere in alcune aree circoscritte sui rilievi di Monte Cavo; qui troviamo vari tipi di querce, alberi di acero di tre specie e ancora il tiglio, il carpino bianco e nero, l’ornello. Ma ci sono anche molti arbusti quali il nocciolo, il lauro, il biancospino, il prugnolo, il pungitopo, le ginestre e l’agrifoglio. Il resto dei rilievi è ricoperto dal castagno che ha soppiantato la molteplicità di specie.
Come si vede dai due esempi di Tuscolo e Monte Cavo, il problema della “ricostruzione mentale” di un sito archeologico è questione complessa, resa variabile da molteplici fattori.
La presenza di resti cospicui, nel primo sito, pur se nascosti dalla vegetazione, permette comunque di apprezzare il valore culturale ed estetico della testimonianza del passato che ci troviamo davanti;
nell’altro caso, la quasi totale assenza di testimonianze tangibili rende pressoché invisibili le tracce sulle quali tentare una riconoscibilità il cui scopo è la conservazione.
Il problema della “ricostruzione mentale” non è un tema puramente estetico, si tratta di sviluppare una capacità di giudizio che possa proteggere un luogo, non tanto nelle sue valenze strettamente paesaggistiche, ma piuttosto nell’insieme dei caratteri culturali, animali, vegetali, geologici che l’hanno plasmato e che sono i segni distintivi di una “comunità”.

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