Natura e storia nei Castelli Romani

 di Giammaria Maffi

“(Questi colli) s’incarnavano declinando in armoniose linee sinuose illuminate dalla prodigiosa chiarità dell’aria che sembra sul punto di volare verso il cielo(…)”. Nikolaj Vasiljevitch Gogol

Così calorosamente descriveva i Colli Albani il noto scrittore russo Gogol nel suo ricco epistolario dall’Italia, durante uno dei frequenti soggiorni che egli fece intorno al 1838 dalle parti di Albano e Genzano, in occasione del quale compose alcune pagine del celebre romanzo “Anime morte”. Lui come tanti altri scrittori ed artisti dell’epoca aveva scoperto la bellezza e la ricchezza di questi luoghi, superando lo scetticismo dovuto al primo impatto; poiché certamente tra le molte zone collinari d’origine vulcanica che caratterizzano i dintorni di Roma, i Colli Albani rappresentano un ecosistema antropico pieno di fascino e varietà, che ha nella sua favorevole posizione geografica e ricchezza litologica i motivi di un insediamento da parte dell’uomo pressoché ininterrotto sin dai tempi più antichi. Ben individuato dalle fattezze della corona esterna del cratere vulcanico, costituita a nord dal complesso dei cosiddetti Colli Tuscolani ed a sud-ovest da quello dei già citati Colli Albani, tale ambiente si contraddistingue per un duplice aspetto: il territorio si rivela, infatti, da un lato accidentato e selvatico, mentre quando declina verso il mare appare più aperto e appunto sinuoso, conferendo così all’intera regione un’immagine animata e mutevole.
In alcuni punti però l’area, per le sue caratteristiche altimetriche e asperità, assume una conformazione tale da renderla allo sguardo di un viaggiatore occasionale inizialmente più difficile da avvicinare rispetto a quella più propriamente romana. La sua bellezza di sempre, a tratti selvaggia ed un po’ ostile, che oggi solo in parte si può ancora ritrovare, sembra essere stata capace di far apparire ombroso, misterico e quasi nemico il territorio dove sorsero i cosiddetti Castelli Romani. Eppure è stata certamente la varietà di motivi d’interesse e l’amore per il luogo ad aver fatto superare la diffidenza ed il timore iniziale, rendendo così più semplice l’accostamento a tali ambienti, mentre la particolarità della macchia e la fertilità dei terreni d’origine vulcanica ne ha favorito l’approccio, spingendo la popolazione a cercare di vincere proprio le asprezze e le insicurezze che al primo impatto sicuramente suscitavano. Tale disuguaglianza e ricchezza dei terreni collinari ha favorito quindi sin dall’antichità lo sviluppo di differenti coltivazioni quali viti, olivi e grano, mentre al di sopra dei 400 metri si è estesa col tempo una ricca vegetazione costituita in prevalenza da faggeti e querceti, poi modificata dall’intervento dell’uomo, attraverso la diffusione di ampie aree boschive lasciate a castagneto, essenza arborea dalla rapida crescita ed ottima per la carpenteria e l’edilizia in genere.
Questo comprensorio laziale, in massima parte inserito all’interno dei confini del Parco Regionale dei Castelli Romani, come dicevamo mantiene ancora oggi per larghi tratti la sua bellezza e quella varietà di paesaggio che in epoca romana, anche in virtù del favorevole clima estivo, lo fece eleggere dai romani come luogo adatto all’insediamento ed all’edificazione, dapprima in età repubblicana di ville patrizie e consolari, e poi addirittura scelto dall’imperatore Domiziano per ospitare intorno agli anni 80 d.C. la sua fastosa dimora estiva affacciata sulle acque del lago Albano. La storia e le peculiarità del territorio dei Castelli Romani appaiono dunque legate proprio alla sua eterogeneità morfologica, che dapprima ha permesso e consolidato la formazione in ordine sparso di centri antropici di varia natura e grandezza, e che poi, durante la cosiddetta fase d’incastellamento dell’Età Feudale (Basso MedioEvo), portò alla genesi di centri agricoli organizzati intorno ad un mastio, paragonabili alle cosiddette domuscultae della Campagna Romana, organizzazioni coloniche precedenti che, insistendo sui praedia d’età romana, si sono evolute dapprima in curtes, vale a dire insediamenti recintati, e successivamente in castra, i primi nuclei protetti da cinte murarie, che anticiparono i castelli di età feudale.
Attualmente resta ben poco di quell’insieme di torri merlate e cinte murarie medievali costruite su speroni tufacei, che hanno caratterizzato la fisionomia di queste parti; eppure ancora oggi in alcuni angoli delle città o lungo le strade statali e provinciali che collegano i vari centri è possibile scorgere quello che sicuramente era un efficace sistema di controllo e gestione del territorio da parte delle signorie locali, un complesso di presidi situati lungo le strade consolari più antiche (l’Appia, la Via Latina -ora Anagnina- e in seguito la via Tuscolana), punti di passaggio obbligati per i centri dell’entroterra ed in genere dell’Italia meridionale. Tale assetto urbanistico, ad eccezione di alcuni tratti, non è più rintracciabile a seguito del pressoché continuo sviluppo che nel tempo ha avuto l’area, mostrando ormai una sequenza di centri che si succedono senza soluzione di continuità lungo i tracciati stradali; nondimeno al viaggiatore contemporaneo è ancora possibile apprezzare l’abitato di Rocca di Papa aggrappato all’antico vulcano, oppure la cittadina di Rocca Priora, affiorante su tutti tra i boschi del Tuscolo, od ancora l’elegante Castel Gandolfo, tutta allungata sul rilievo circondante il lago Albano.
Nonostante la perdita dei connotati più tipicamente medievali, dal punto di vista topografico questi luoghi storici del Lazio costituiscono tutti insieme la cosiddetta area dei “Castelli Romani”, denominazione inizialmente riguardante l’intero distretto di Roma -consistente in una cintura di borghi e centri rurali che da nord a sud circondavano la capitale. In seguito con l’Unità d’Italia il toponimo fu usato per indicare solo la parte meridionale gravitante intorno al distretto dei colli Albani e Tuscolani, un’area geografica di circa 100 chilometri quadrati entro cui erano situati 14 centri urbani (15 se consideriamo anche la cittadina di Velletri) di diversa importanza o grandezza.

LE VICENDE DEI CASTELLI ROMANI

Assecondando questo territorio mentre si dispiega lungo la direttrice dell’Appia Nuova, ci troviamo coinvolti da un paesaggio che rapidamente cambia ai nostri occhi, passando da una successione di terreni agricoli alternati a case isolate e piccole palazzine, fino a raggiungere la parte più interessante dal punto di vista geografico dell’area, ovvero la parte posta a corona del Monte Cavo, lungo le pendici dell’antica area craterica tanto cara alle popolazioni latine. Da qui il suolo s’inerpica fino a superare i 900 metri di quota, in un alternarsi di valloni e altipiani che rendono il comprensorio attraente e variegato.
E’ notevole la percezione dello spazio che da diversi punti di vista si riesce ad avere di questa parte della provincia romana: dapprima il suo accartocciarsi attorno ai due specchi d’acqua vulcanici presenti -i laghi Albano e di Nemi- e quindi il successivo dispiegarsi fino al mare, rende l’area al tempo stesso affine e diversa dalle altre zone della campagna romana. Ove prima si alternavano al pressoché inarrestabile sviluppo della Capitale porzioni miracolosamente rimaste intatte di terreni ad uso agricolo e con presenze architettoniche di singolare valore ed unicità storica, ora ecco il suolo alzarsi di quota e conformarsi in modo scosceso e discontinuo: uno spazio questo nelle cui pieghe fin da epoca preromana accolse diverse popolazioni che, attratte dal buon approvvigionamento d’acqua e dalle particolarità climatiche dei luoghi, trovavano le condizioni favorevoli per una fertile agricoltura ed un buon allevamento di bestiame. Così fin dai primordi della storia millenaria di Roma, si ritrova la presenza d’insediamenti umani nei territori circondanti il lago Albano.
In questi spazi a tratti aperti ed ampi, in altre parti piuttosto impervi e oscuri, si è sviluppata la storia delle diverse popolazioni locali costituenti la cosiddetta Lega Latina, approdate qui dopo una continua ricerca dei migliori angoli ove insediarsi e cercare protezione dalla realtà circostante. Il passaggio descritto da Tito Livio nella sua Historia Romae in cui racconta con toni leggendari l’investitura del secondo re di Roma Numa Pompilio, descrivendo come l’augure durante i riti propiziatori di tale celebrazione, nel prodigarsi a ricercare segni confermativi o meno della volontà degli dei, si rivolgesse mentalmente verso il punto di riferimento allora più lontano, in altre parole verso il Monte Albano -oggi Monte Cavo-, indica come questa vetta dominante dei Colli Albani, fosse tenuta in considerazione in qualità di centro religioso riconosciuto sin dall’antichità.
Un rito di per sé non dice molto se nella sua simbologia più ampia non si leggesse la volontà da sempre dell’uomo di conoscere e distinguere la realtà che lo circonda, marcando il territorio e riconoscendone la sua realtà fisica di spazio della circolazione, per contenerlo e delimitarlo, in opposto allo spazio del divieto, quello non conosciuto, quello la cui soglia non è da oltrepassare; e l’area all’epoca aveva non tanto il ruolo di fondale prospettico a sud per la nascente civiltà di Roma, ma assumeva le qualità di orizzonte e limite cultuale, uno spazio naturale entro cui fare esperienza del divino. La presenza del Tempio di Giove al termine della Via Sacra che porta alla sommità del venerato monte e delle altre aree religiose poste sul Monte Tuscolo, è un chiaro esempio di come questo spazio fosse considerato un recinto sacro entro cui era assicurata la benevolenza da parte degli dei.
Se oggi si sente ancora parlare di località quali Nemi e il Tuscolo, come luoghi misteriosi e carichi di esoterismo e di potere energetico, certo le motivazioni vanno ricercate proprio in tale legame con il suo passato più antico e primitivo: lo specchio di Diana -così veniva chiamato il lago di Nemi- era uno spazio in cui si consumavano arcaici riti d’iniziazione e di offerta votiva agli dei, attraverso celebrazioni di matrice culturale orientale e misterica.
Quello che invece ai più è certamente noto dell’area dei Castelli Romani è la sua vocazione turistica come centro di villeggiatura estiva, giacché sin dal Cinquecento, riprendendo un’abitudine d’età romana, venne scelta come meta per il soggiorno estivo da alti prelati e nobili locali, nonché per le sue centenarie tradizioni gastronomiche e ricreative che hanno reso il territorio da sempre ricettivo per quello oggi noi chiameremmo il turismo culturale di massa.
Tanta ricchezza e varietà di motivi attribuibili al comprensorio a Sud-Est di Roma s’interseca con la complessità della storiografia locale, spesso legata alle alterne fortune delle famiglie patrizie romane, e si resta colpiti da come nonostante ripetute distruzioni d’insediamenti e centri antropici, si sia comunque sempre avuto da parte della popolazione un ritorno ai medesimi luoghi, spesso richiamati da quanto era rimasto delle precedenti strutture insediative (resti d’età romana delle mura difensive, delle sostruzioni e delle reti di collegamento e approvvigionamento, quali strade e acquedotti provenienti dal Colle Romano e da Monte Ceraso).
Tali opere di bonifica e allacciamento idrico avevano infatti già favorito, come detto, l’edificazione in questi territori di ville rustiche e gentilizie, ospitando tra gli altri Lucullo e Cicerone sulle alture intorno all’area dell’antica città di Tuscolo, mentre alcune importanti dimore estive furono erette nel territorio dell’antica Alba Longa, oggi coincidente con quello dell’attuale Albano, costruita proprio sulle fondamenta del castrum severiano, accampamento militare della II legione partica, istituita dall’imperatore Settimio Severo, centro militare nevralgico per il controllo dei confini a sud di Roma.
La sovrapposizione dei borghi con il precedente abitato avviene così attraverso la costituzione di un tessuto abitativo che in parte si adegua alle tessiture esistenti, ed in parte le riutilizza secondo i propri bisogni dettati dalle necessità di difesa di un piccolo nucleo feudale, creando le premesse per il radicamento sul territorio dei cosiddetti centri castellani, la cui influenza a livello sia politico che economico avrà un peso rilevante sull’identità e lo sviluppo dell’area stessa. La creazione e le vicissitudini delle diverse cittadine laziali vanno di pari passo con gli sviluppi della storia di Roma, allorquando si ebbe l’ascesa di quest’ultima a scapito delle popolazioni latine stanziatesi in questi luoghi – tra le quali ricordiamo i popoli di Alba, di Tusculum e di Aricia– che ne determinò l’assoggettamento e l’obbligo di cooperazione con Roma stessa, oltre che renderli dei centri satelliti del governo centrale a servizio della Capitale, ed i cui compiti erano quelli di produrre beni e servizi per la città.
La loro sottomissione portò a livello politico ad un rafforzamento del potere territoriale di Roma, nonché favorì la possibilità di esercitare pieno controllo dei confini centro-meridionali del dominio romano, dapprima estesi in età repubblicana al solo sud d’Italia, per poi crescere in età imperiale lungo il versante extra europeo dei balcani.
Tale controllo da parte del governo centrale di Roma su questi territori si mantenne pressoché ininterrottamente costante fino al periodo comunale, quando le spinte autonomiste e l’indebolimento del potere papale, portò come conseguenza l’inizio di un’organizzazione autonoma di tali centri, favorendone una crescita in termini di popolazione e l’assunzione della fisionomia nuova di borgo feudale o civico.
Fino ad allora le alterne fortune del papato in età medievale avevano spesso portato a continui cambiamenti delle famiglie nobiliari aventi il compito di gestire ed organizzare tali comprensori, la cui precarietà o incompetenza li portava piuttosto ad attuare una politica incentrata sulla difesa del proprio feudo piuttosto che sul suo sviluppo economico o sulla crescita urbanistica dell’intero territorio.
Se da un lato lo Stato della chiesa non si era impegnato nella gestione di spazi con una tale ricchezza ambientale e storica, dall’altro però la qualità del luogo ed il suo fascino di romitorio nonché la sua caratteristica sacralità sopra accennata, spinse a costituire e ivi stabilire una serie di centri religiosi e monastici di vario ordine e grado. La presenza di abbazie e monasteri, segni visibili della scelta di spiritualità da parte dei fondatori, alla ricerca di spazi aspri e isolati atti alla meditazione, costituì un punto di riferimento determinante per la costituzione da parte della popolazione locale dei primi insediamenti medievali; conseguentemente i conventi divennero da quel momento in poi veri e propri centri di irradiazione  spirituale, economica e politica, nelle cui vicinanze era conveniente stabilirsi.
A conferma di ciò basta ricordare la storia di Genzano, che nasce proprio intorno alla primitiva struttura monastica, trasformata in seguito in mastio fortificato tuttora in parte visibile, costituendo il fulcro organizzativo per lo sviluppo del borgo. Ogni evoluzione successiva in senso civico della cittadina farà i conti con questa organizzazione primaria, comprendendo o inglobando ove necessario i caratteri più antichi dell’abitato. E questo grazie alla favorevole posizione lungo il lago di Nemi che fin dall’inizio strategicamente assunse l’insediamento, costituendo un ideale triangolo difensivo con ai lati il versante del lago a nord, il collegamento con Roma ad ovest ed il lato fortificato con le torri a sud-est, da cui si dominava con lo sguardo il territorio romano degradante fino al mare, solo in parte coltivato, giacché all’epoca era perlopiù lasciato a pascolo oppure incolto. Tale organizzazione spaziale rese il centro insediativo un luogo sicuro e strategico per il controllo, la gestione e lo sviluppo di Genzano stessa e dell’area circostante.
Siamo in un periodo, quello del Basso Medioevo, in cui il comprensorio romano incomincia ad organizzarsi nelle cosiddette complessi agricoli collettivi, o domuscultae, che insieme alle curtes, alle massa e successivamente ai castra, divennero i modelli dell’organizzazione rurale, costituita in nuclei insediativi autosufficienti ripetuti nella campagna, una sorta di micro-sistemi sociali e politici creati per amministrare i territori e gestire la cosa pubblica. Inoltre la coincidenza di alcuni distretti locali con le cosiddette diocesi suburbicarie, favorì la loro amministrazione attuando forme di controllo e pianificazione più articolate: questi modelli cooperativi a livello territoriale costituirono una sorta di matrice per gli insediamenti successivi d’età tardo-medievale, permettendone lo sviluppo e la crescita ulteriore, nonché la successiva costituzione in vero e proprio borgo rurale.
Inoltre durante la difesa di Roma dalle incursioni dei pirati saraceni, furono create alleanze strategiche tra l’aristocrazia terriera ed il papato, spingendo le varie fazioni ad un accordo di cooperazione che assecondò il processo di fortificazione dei feudi. A seguito di ciò l’assetto politico economico dell’area Albano–Tuscolana cambiò decisamente, portando ad un aumento d’interesse da parte delle famiglie nobili di Roma, interessate a mantenere il controllo di questa parte del territorio, incidendo in maniera determinante sulla sua articolazione -o meglio frazionamento- a livello regionale.
I maggiori rappresentanti del ceto di allora erano i Conti di Tuscolo, stanziatisi proprio nelle vicinanze dell’antica rocca, di cui si erano assicurati il controllo e la difesa, e da cui esercitavano il loro potere di controllo ed il loro protezionismo. Durante la reggenza da parte di esponenti di questa casata, il papato tra l’XI e il XII secolo visse momenti contrastanti e drammatici, che portarono ad una sorta di ribellione popolare, culminante con la distruzione completa della città di Tuscolo nel 1191.
Sotto di loro si ebbe una riorganizzazione della diocesi suburbicaria e degli ordini monastici, con particolare favore nei confronti del basiliano Nilo, che sui territori degli stessi Conti di Tuscolo, poté fondare l’omonima Abbazia dell’odierna Grottaferrata. Anche in questo caso la presenza della struttura religiosa favorì l’organizzazione di una domusculta e dell’abitato circostante, costituendo il vero e proprio nucleo insediativo del borgo, che da quel momento in poi vide prendere corpo. Come in altre parti del comprensorio romano, l’organizzazione agricola dell’epoca era tale da prevedere la raccolta delle aree coltivate principalmente nei dintorni del castello -vero e proprio centro organizzativo e di smistamento di beni e servizi- avendo in prossimità delle mura le aree lasciate ad orto, e coltivando invece i terreni restanti a grano, vino e cereali. Nell’XI secolo si ebbe il massimo sviluppo del feudi dei conti di Tuscolo, che all’epoca estesero fino a Nemi il loro dominio e moltiplicarono, attraverso acquisti ed usurpazioni, la realizzazione di torri e castelli nei principali luoghi di comunicazione e valico dell’area, favorendo da queste parti quello che era ormai un processo inarrestabile per tutta Roma: il cosiddetto fenomeno dell’incastellamento. Finalizzato al maggior controllo ed alla gestione delle risorse umane del territorio circostante, quest’ultimo diede un’ulteriore fisionomia all’assetto politico ed economico della regione, perdurando per molti secoli, fino ai tempi più recenti.
Tale fenomeno del Medio Evo si ebbe essenzialmente per ragioni legate al controllo dell’area ed alla necessità di garantire una sicurezza per sé e per i propri sottoposti: con l’indebolimento del potere centrale di Roma e con la vicenda di ascesa e decadenza dei Conti di Tuscolo, la fortificazione dei borghi necessariamente portò alla loro trasformazione in centri castellani, veri e propri baluardi delle famiglie gentilizie, nonché antagonisti del Papato per la gestione della provincia. Lo storico Giuseppe Tommasetti parla a tal proposito della nascita dei cosiddetti “comuni feudali”, intendendo affermare che la loro natura non era del tutto libera, ma condizionata dalle vicende del feudo, una volta capitolato il quale, spingeva la popolazione ad essere aiutata dal potere comunale di Roma. Lo studioso inoltre sottolinea come nel solo territorio romano ci fossero sparsi tali e tanti castelli e feudi baronali quanti in nessun’altra parte al mondo.
Il massimo sviluppo di questi complessi si ebbe nel XIV secolo, a seguito del periodo buio di cattività avignonese del pontificato, quando Roma si ridusse ad appena 17.000 abitanti e, poiché scarsi erano gli approvvigionamenti alimentari ed idrici, la popolazione delle campagne si spinse verso i Castelli dei Signori locali, gli unici in grado di garantire la sussistenza e la sicurezza necessaria.
Così costituita da territori tanto frazionati, l’area dei Castelli Romani divenne più difficile da gestire da parte del Papato, in continuo contrasto con le famiglie locali, spesso non in grado di affrontare le problematiche esistenti: nonostante, infatti, Innocenzo III (1198-1216) avesse promulgato durante il suo pontificato una serie di disposizioni per regolare il sistema di rapporti feudali verso il governo papale e garantire il diritto dello Stato della Chiesa contro le spinte centrifughe, durante la cosiddetta Età Comunale (che qui ebbe inizio nel 1140 con l’istituzione del comune di Roma), a causa del desiderio dei nobili di avere maggiore indipendenza nella gestione del potere territoriale -sommata ai continui dissidi tra Papato ed Impero, esplosi poi nella cosiddetta lotta per le investiture- si acuirono le spinte antagoniste degli stessi centri castellani, desiderosi di schierarsi con chi era in grado di garantire loro maggiore libertà d’azione.
Ecco allora prendere corpo nella campagna romana il cosiddetto fenomeno del feudalesimo baronale, periodo caratterizzato da lotte intestine per il predominio delle aree e dispute per i confini tra i vari casati, che nella zona dei Castelli Romani portò al costituirsi di diverse sfere d’influenza territoriale, facenti principalmente capo da un lato alla famiglia dei Colonna, discendenti degli antichi conti di Tuscolo, con possedimenti distribuiti principalmente nell’area Labicana-Tuscolana, ed i cui confini raggiungevano l’attuale Abruzzo; dall’altro alla famiglia baronale dei Savelli, gravitanti piuttosto nell’area dei Colli Albani, con continue contese da parte dell’una e dell’altra per la definizione dei confini ed il controllo dei passi. A loro si opposero di volta in volta nel tempo, grazie anche alle concessioni del papa di turno, tra gli altri le famiglie degli Orsini, dei Caetani, degli Sforza, desiderosi di contendere parte di questi centri strategici per Roma e l’Agro pontino.
Dal punto di vista architettonico di tale periodo restano solo poche tracce sparse nella regione, ed esse spesso risultano rimaneggiate, a conferma delle molteplici trasformazioni avvenute nei tempi seguenti; inoltre esse furono compromesse a causa dei ripetuti bombardamenti accaduti durante la II guerra mondiale, che provocarono molte ferite al patrimonio artistico e culturale dei Castelli Romani. Esse sono però la testimonianza diretta dalla ricchezza di storia e tradizione medievale che ancora oggi le comunità locali possiedono, nonché la prova della loro capacità organizzativa ed autonomia dalle alterne vicende del potere centrale.
Un interessante esempio del periodo risulta essere il complesso denominato Castel Borghetto. Situato al settimo chilometro della Via Labicana (ora via Anagnina) su un’altura di origine tufacea, fu eretto sulle fondamenta delle robuste fortificazioni in calcestruzzo -precedentemente realizzate per opera dei Conti Tuscolani tra l’XI ed il XII secolo- per il controllo e la gestione del territorio circostante. Ben presto il nome del fortilizio assunse l’appellativo di “Burgus”, costituendo così il toponimo della località che di lì a poco venne a costituirsi nei pressi della costruzione principale. Con la caduta della famiglia dei Signori di Tuscolo, l’area passò nelle mani prima degli Annibaldi e poi dei Savelli, che nel XIV secolo fortificarono il castello, la chiesetta e le case esistenti con una cinta muraria rettangolare, realizzata da 13 torrette aggettanti, anch’esse di forma rettangolare, e una torre di guardia centrale, costituendo dunque il cosiddetto Castrum Borghetti. La storia di questo fortilizio è legata alle alterne vicende di questo casato ed alle mire politiche che i vari papi ebbero su di esso, desiderosi di controllare un tale avamposto territoriale divenuto nel frattempo di una certa rilevanza per l’area. A seguito di ripetuti attacchi per la sua capitolazione, il castello nel XV secolo cadde in decadenza, e fu solo grazie all’opera del Cardinale Della Rovere -già artefice della realizzazione della rocca attorno all’abbazia di San Nilo- che si poterono restituire i caratteri merlati medievali, oltre che ad aumentarne le fortificazioni esistenti. Tuttavia agli inizi del Cinquecento si ebbe un progressivo allontanamento della popolazione dal borgo, ritiratasi verso la rocca roveriana di Grottaferrata, a seguito dell’ormai avvenuta inadeguatezza delle opere difensive esistenti rispetto alle nuove armi da fuoco introdotte; inevitabilmente questo comportò la decadenza della struttura e la sua riduzione, già intorno al 1557, da importante castello medievale a malfamata taverna di sosta.
Con il ritorno della corte papale a Roma e la conseguente riaffermazione del potere temporale della Chiesa, la provincia tornò a gravitare sotto l’orbita della Capitale, ed ebbe inizio una stagione di riscoperta dei Colli Albani e Tuscolani, alimentata da un ritrovato amore nei confronti della cultura classica ed un interesse verso le radici antiche; tale ritorno d’attenzione verso questi luoghi, fu favorito dalla vivacità culturale degli abati e monaci dei conventi e monasteri presenti nell’area, da quello già citato di S. Nilo a Grottaferrata al convento di S. Silvestro di Montecompatri dei Carmelitani scalzi fino all’Eremo dei Camaldolesi di Monte Corona sul Tuscolo. Testimonianza di tale amore e passione per le arti e le lettere si ha nella preziosa collezione di scritti e documenti della biblioteca di S. Nilo, nonché nelle bellezze artistiche ivi realizzate in questo periodo, con particolare riferimento al campanile dell’abbazia ed alle sue decorazioni interne, a dimostrazione in quell’epoca del perdurare di un filone culturale esistente e che gli eruditi del periodo tornarono ad abbracciare con vivo interesse.
Parallelamente a ciò iniziò la riscoperta del cosiddetto Vetus Latium quale meta dello svago e del riposo dalla calura dell’agosto romano per i pontefici e per l’alta società patrizia, che comportò il recupero dell’antica abitudine di villeggiatura e di residenza nei Castelli durante i periodi estivi, propria appunto degli eruditi romani d’età classica, quali Cicerone, Lucullo e Catone, solo per citarne i più noti.
Ma fu con il Rinascimento maturo che vennero spazzati via tutti i dubbi sulla bellezza e l’opportunità di vivere da queste parti, quando prese piede l’abitudine di coltivare vigne e di costruire ville intorno al comprensorio del Tuscolo, tra Frascati e Grottaferrata, operando contestualmente un’attenta riqualificazione urbanistica, oltre che architettonica, attraverso la scelta dei luoghi più favorevoli all’ubicazione di tali dimore rispetto al patrimonio naturalistico circostante, favorendo la realizzazione d’accessi e percorsi diramanti dalle vie consolari già esistenti, e con l’attuazione di una vera e propria strategia progettuale: guardare allo spazio circostante in maniera duplice, individuando un lato più formale e di rappresentanza rivolto all’esterno, ed uno più privato, estroverso ed animato, all’interno.
Tale strategia progettuale, tesa quasi a voler cogliere l’anima duplice di questi luoghi -non troppo soggetti alla presenza dello Stato della Chiesa-, porta a sviluppi artistici notevolissimi ed inediti per queste parti.
Citando Villa Aldobrandini come esempio più riuscito e manifesto dell’arte di combinare architettura e natura, progettazione ambientale ed esigenze di rappresentanza, ecco che il costruito si spoglia degli spazi più stretti ed oscuri del castello e del borgo medievale, per riproporne altri più ampi ed ariosi. L’urbanistica di queste parti ne trasse sicuro vantaggio e così anche lo sviluppo di centri quali Frascati e Grottaferrata, per troppo tempo rimasti concentrati intorno alla sola presenza del palazzo vescovile o dell’abbazia dei Padri basiliani di S. Nilo. S’iniziò così anche qui a pensare in termini di città e di territorio, non più in vista della difesa dei propri possedimenti, ma dell’organizzazione e dello sviluppo dei centri abitati. Un così grande cambiamento per l’epoca portò con sé il merito non solo di aver dato un assetto nuovo ad alcuni centri, ma anche di aver favorito la realizzazione d’opere d’ingegneria civile per il bene della collettività, opere che in massima parte erano ancora quelle ereditate dall’età romana e che permisero una fruizione più ampia ed agevole del complesso sistema territoriale. Parallelamente a ciò furono riproposti per i nobili i modi tipici dell’otium romano nelle vesti nuove del vivere secondo la foggia del momento, in altre parole “alla francese”, mentre al popolo era riservata l’opportunità di sostare brevemente per godere di pic-nic sui prati e bevute di vino locale nelle “fraschette”, tipiche di queste parti. Quelli del vino e della convivialità sono aspetti del vivere quotidiano che da sempre hanno caratterizzato le abitudini degli abitanti dei Castelli: già dall’età romana la coltivazione dell’uva e la produzione vinicola hanno sempre fortemente orientato l’attività agricola fino ai giorni nostri.
In continuità con il suo passato, la storia dei Castelli Romani è ancora adesso influenzata dall’amore per questi luoghi e per quei tratti così fortemente caratterizzati della sua natura e della sua gente: una memoria fatta di cerimonie, d’usanze, di detti e canzoni popolari, in grado di costituire una matrice culturale molto forte, tale da stridere oggi con il progressivo frazionamento e la tendenza alla multiculturalità che a Roma nello specifico, ma nelle metropoli in genere, si viene progressivamente a realizzare. L’identità dei luoghi qui è chiara e si rende manifesta attraverso i suoi riti contemporanei, fatti di simbologie arcaiche, di costumi locali e consuetudini contadine che, tra una processione religiosa ed una sagra popolare, una fiera campestre ed una serenata, rappresentano le occasioni in cui il territorio e la sua cittadinanza si mostrano e partecipano della bellezza e dell’allegria condivisa. Tutta questa capacità ricettiva del territorio si esprime ora attraverso il cosiddetto turismo culturale ed eno-gastronomico, attualmente considerata la ricetta vincente per coinvolgere e far interessare la popolazione italiana e straniera a questi luoghi, forti di una tradizione che attinge a piene mani proprio dalla natura circostante e dalla sua storia, fatta d’ospitalità e genuinità, di antica memoria e vivace modernità.

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