Una regione dello spirito

di Renato Mammucari

Come bene ha scritto Luigi Devoti, il più prolifico, preparato e sensibile storico dei Castelli Romani – la “terra promessa” secondo la felice definizione del giornalista Francesco Saverio Kambo – le pur numerose pubblicazioni su questo “tema” devono, anziché frenare e scoraggiare, spingere ancor di più ad approfondire la conoscenza del territorio, dell’ambiente e dell’arte castellana, in quanto spesso e volentieri ci si è fermati al folclore e alle tradizioni, anch’esse in ogni caso degne di nota e considerazione, senza indagare a sufficienza la storia, l’arte, l’architettura e l’archeologia le cui pur numerose testimonianze, mai come in questo ambiente, sono veramente punte di un iceberg.
E quello splendido volume Invito ai Castelli Romani del 1995, da considerarsi “canto del cigno” di Mario dell’Arco che doveva cessare di vivere ed operare il 3 aprile dell’anno seguente, con quell’azzeccata e stimolante esortazione, oltre che sottotitolo, “ovvero diamo una breve tregua con dolce vino all’affannosa vita”, era ed è ancora un suggerimento più che valido a rivisitare essenzialmente un luogo dello spirito.
Superando ogni rievocazione folcloristica e nostalgica, questo raffinato poeta ci invitava, con quel gusto personale tutto suo e con una ricerca dell’espressione quasi aerea e vicina all’ineguagliabile suo immaginario poetico, più che a scoprire quei luoghi denominati appunto Castelli Romani, a fare una pausa, un “ozio ciceroniano” dando così un taglio al ritmo spesso devastante della frenetica quotidianità che, quasi senza accorgercene, ci inghiotte giorno dopo giorno; ed è sempre Mario dell’Arco a ricordarci che se quattordici sono i rioni di Roma altrettanti sono i Castelli Romani, disseminati sui colli d’Alba, una propaggine dei sette fatidici colli, parte affacciati su due laghi, tutti con la ghirlanda di pampini.
Sull’area ove un tempo sorgeva la villa di Domiziano troviamo Albano e “Castra Albana”, accampamento dei legionari di Settimio Severo e, proseguendo sull’Appia, c’è prima Ariccia fondata, secondo il mito, da Ippolito intorno al X sec. a.C. e subito dopo Genzano il cui nome deriva da “Fundus Gentianus”, ossia gente dei Gentiani o da “Cynthae Fanum” cioè bosco di Cinzia, più avanti ancora la città Volsca Velester, la Velitrae dei romani, inserita di diritto quale quindicesimo castello “ad onorem”, mentre poco distante Lanuvio fondata, secondo Appiano, da Diomede di Titeo, signore di Argo, scampato da Troia.
Nel tuscolano troviamo Frascati sorta sempre sull’area di un’antica villa romana, Crypta Ferrata ossia Grottaferrata sviluppatasi, secondo la leggenda, su quella che fu la villa di Cicerone e poco distante Monte Porzio Catone sorta anch’essa su una villa della “gens Porcia”, che ebbe quale suo illustre personaggio Marco Porcio Catone detto il censore.
Nemi, che deriva il suo nome da Nemus Dianae, bosco sacro appunto alla dea della caccia, sorge su uno sperone di roccia a picco sul lago dallo stesso nome le cui acque vennero definite da George Gordon Byron “specchio ovale del suo vitreo lago” e così Castel Gandolfo che ha mutuato il suo nome da Castri Gandulphi, l’antica famiglia Gandolfi, che si affaccia anch’esso sul lago omonimo.
Marino, poi, sorta sui relitti della città latina Castromoenium o del municipio romano Ferentum deve il suo nome ad un’antica villa riconducibile a Caio Mario o a Lucio Murena, a seconda delle diverse quanto contrastanti attribuzioni, e più in alto è arroccata, è proprio il caso di dire, Rocca di Papa, dal cui “balcone” si gode il più bel panorama del mondo, il cui più antico insediamento risale al XII sec. a.C. sulla città latina di Cabum.
Nel Labicano c’è, infine, Colonna antico castello e feudo della omonima famiglia nobiliare, Montecompatri da mons Compatrorum ossia punto d’incontro o meglio crocicchio di più strade e per ultima, ma solo in questa sommaria e fugace elencazione, Rocca Priora il cui nome ricorda appunto la prima rocca realizzata subito dopo la distruzione di Tuscolo.
Castelli Romani, quindi, sono quei quattordici paesi a sud-est di Roma che si elevano sui colli Albani e Tuscolani e si snodano lungo le vie Appia e Latina, Labicana e Nemorense, e Castelli in quanto feudi dei Savelli ad Albano, Castelgandolfo e Rocca Priora, dei Chigi ad Ariccia, dei Colonna nell’omonimo Comune, a Lanuvio ed a Marino, degli Aldobrandini a Frascati, dei Borghese a Montecompatri e a Monte Porzio, degli Sforza Cesarini a Genzano, ancora dei Colonna e Farnese a Grottaferrata e, per concludere, degli Orsini a Nemi ed a Rocca di Papa.
Solo Velletri non è stato Castello in questo senso e quindi vi rientra quasi “di prepotenza”, in quanto è una delle poche città che, come Roma, Venezia e qualche altra, non è mai stato feudo di alcun signore, come recita il motto del suo stemma “Est mihi libertas papalis et imperialis”, essendo riuscita in tutta la sua pur travagliata storia, tra alterne vicende, a mantenersi in una specie di splendido isolamento indipendente da ogni mira di possesso da parte delle numerose famiglie nobili che invece, come ho appena ricordato, dominarono tutte le altre cittadine limitrofe.
Niente di più bello, scriveva con enfasi ai primi del Novecento B. de Ritis, «niente di più suggestivo di questo paesaggio del vecchio Lazio, energico e allo stesso tempo sentimentale, che sa di resina, di lavanda, di mille aromi silvestri, fonte ispiratrice di infinite pagine dai più sensibili poeti. Visita il vecchio Lazio sconosciuto – concludeva questo arguto giornalista – avrai un’esperienza d’eccezione. Proverai la sensazione ineffabile di porre un piede sull’eternità perché tutta la campagna vibra e canta con le sue mille e mille voci di chi l’ha calpestata segno che gli antichi vi dovevano sentire la voce degli dei». Il Latium Vetus, infatti, sin dall’epoca dei romani era considrato quel “locus amenus”, quasi una regione dello spirito, nel quale sia per la vicinanza con Roma sia per l’amenità del paesaggio e la mitezza del clima, i notabili dell’epoca (Domiziano, Cicerone, Caio Mario e Marco Porcio Catone il Censore) cominciarono a costruirvi le loro stupende ville. Accanto a queste, ed a volte addirittura sui resti di quel che restava di tali stupende residenze estive, sorsero le prime città latine e successivamente quelle medievali: Alba, Aricia, Castri Gandulphi, Columen, Frescati, Fundus Gentianus, Crypta Ferrata, Lanuvium, Murinas, Mons Compatris, Castrum Montis, Portii, Castrum Nemoris, Roccam de Cabum, Corbium e Velitrae.
L’abbandono e il decadimento medioevale doveva terminare verso la metà del Quattrocento quando, salito al soglio di Pietro papa Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, i fermenti rinascimentali trovarono eco ne I Commentarii di tale illuminato pontefice. Basta leggere una sola, tra le tante pagine, dedicata ad una gita a Monte Cavo per calarsi nel nuovo modo di vedere le cose tipico appunto del Rinascimento: il pontefice contemplando la marina, da Terracina fino a monte Argentaro, misurò con l’occhio tutto il lido della Chiesa che così descrisse pur con qualche enfasi: «Si vedevan le giogaie di Centocelle, che arricchiscono l’età nostra di nuovo altume fino al ponte Romano ed alle popolate spiagge de’ Tusci. Là era Ostia e, a guisa di serpe, il Tevere vagamente serpeggiante. Vide in oltre Ardea, la patria di Turno, e verso il mare gli stagni del lago Numico, presso i quali era solamente permesso libare a Vesta; e le ruine d’Ariccia, onde dicesi nata la madre d’Augusto, e Lavinia posta su un colle, detta da Lavinia, figlia di Latino, consorte di Enea. Vide il lido Nettuno edificato sulle ruine di Anzio dove prendesi gran copia di palombi, allorquando, volendo questi trasvolare il mare, preparansi a lasciar l’Italia. Rivolse poi gli occhi, anche alle cime ed ai gioghi favolosi di monte Circello, all’isola Ponzia, resa illustre dalla prigionia di Alfonso, e perfino a Terracina, che i Volsci dicevano Anxur vedevasi parimenti il lago di Nemi, quel d’Ariccia, quel di Giuturna, l’Albano, come se si fosse stati sulle loro sponde. Di là, anzi, potevasi distinguere la grandezza e la forma vera, e gli spazi frapposti che, in quel tempo, frondose selve e verdeggianti erbe coprivano, commisti a vari e giocondi colori. Sovra tutti più bella appariva la ginestra, che copre gran parte di quei campi. Roma infine si offrì per intiero al suo cospetto e il Soratte e l’Agro Sabino e la candida giogaia degli Appennini e Palombara e Tivoli e Preneste e quei luoghi, che dicono Campania. Discernevasi inoltre il lago Regillo, oggi palude de’ Grifi, e le ruine di Tuscolo. I Romani distrussero questa città, dopo la sconfitta avuta da Federico, sconfitta, secondo la tradizione, massima. Vicino la deserta Molara, Roccapriora, Lucullano (detto oggi Frascati), Mariano (detto Marino), castello della famiglia Colonna».
Come lui, prima e dopo, in una lunga e interminabile staffetta senza soluzione di continuità si passarono il “testimone” una infinità di intellettuali che, è bene tenere presente, non avevano fretta, non erano loro a entrare nel “viaggio” già organizzato da altri, ma era questo a penetrare in loro in quanto, pur senza conoscerlo, avevano fatto proprio lo stile di vita di Pierre-Henri De Valenciennes il quale perentoriamente consigliava: «Viaggiate il meno possibile in diligenza; lasciate questo lusso ai ricchi ignoranti che vanno in giro per il mondo come dei bauli e, chiusi nelle loro vetture, vedono il paese che attraversano inquadrato dalla lanterna magica della portiera.
I luoghi più affascinanti sfuggono alla loro vista; non si fermano che nelle città; e vogliono vedere le curiosità in esse contenute, più per posa che per passione. L’artista deve viaggiare a piccole tappe, a cavallo se possibile, e più spesso a piedi, come Émile. In questo modo, nulla di tutto quanto merita di essere osservato e copiato può sfuggirgli di vista; e se gli manca il tempo per acquisire una veduta generale di un paese, si premurerà prontamente di cogliere i dettagli che potrà ricomporre, alla prima sosta, con la memoria ancora fresca delle cose incontrate che hanno meritato di essere annotate nel taccuino». 
E con questo spirito di osservazione quando, nel 1826, quel sensibile e sensitivo poeta svevo Wilhelm Waiblinger entrò ad Albano non poté fare a meno di esclamare: «Tu sei la patria elettiva del mio cuore, tu sei la mia fanciullezza svanita, tu sei la mia amante perduta» e così Richard Voss alla vista di Castelgandolfo sospeso alla ripida parete del cratere, dopo aver annotato che esso domina «l’onda tranquilla, malinconica e mistica del bellissimo lago», precisava con ancora maggiore enfasi che «l’impressione che dà questo paese meraviglioso è sublime, questo lago somiglia ad una tragedia, con la sua cornice di rupi e di foreste, di solitudine e di abbandono, di campagne e di spiaggia marina: su questa scena passarono i popoli a schiere, e a schiere vi trovarono la rovina e la morte» ed altrettanto bella e icastica è l’immagine in versi che dà di Ariccia Gabriele d’Annunzio: «… tra i mandorli scossi ridea, / quale da rupe un gregge pendulo / Aricia al sole».
«Genzano bbello! / Genzano è ffatto a ferro dé cavallo; / Genzano lo pôi di’ él mijor Castello» recitava uno dei canti popolari raccolti agli inizia del Novecento da Gigi Zanazzo, dopo oltre venticinque anni di appassionato lavoro e di costante attenzione a quella “voce” del popolo che i tempi moderni già a quell’epoca stavano per soffocare e a ben vedere sembrano quasi una eco di quelli che nel 1818 aveva scritto George Gordon Byron alla vista di Nemi «celato entro una conca / di poggeti selvosi, egli non teme / il furiar de’ nembi; e mentre il vento / svelle la quercia dall’ime radici, / qua e là s’increspa, mormorando appena, / lo specchio ovale del suo vitreo lago».
Il Castello più appartato e solitario, il più primitivo ed il più lontano dalla “civile convivenza” è però quello di Rocca Priora su quell’altopiano “naturalmente desolato” che, per Edoardo de Fonseca, «nulla chiede, nulla gli vien dato» e, precisava ancora questo sensibile scrittore, in quel bel libro intitolato appunto I Castelli Romani edito nel 1904, il progresso non ha neanche sfiorato quei luoghi al punto che «una logora guida di cent’anni fa potrebbe servire ugualmente al solitario viaggiatore che salga a questo romito paese. Sono le solite straducce tortuose, ripide, ingombre di paglia, di pietre e d’altro!»
Dell’antica Colonna, il più settentrionale dei Castelli Romani insediato, per dirla col Seghetti, sull’ultima «collinetta isolata del sistema vulcanico laziale, segnando il nord-est del gruppo delle alture tuscolo-albane», non esistono immagini dell’Ottocento, né incisioni, né tantomeno acquerelli mentre vi sono una infinità di stampe che rappresentano Frascati con le sue stupende ville tardo-rinascimentali e barocche; infatti là dove illustri personaggi dell’antichità, quali Cicerone e Lucullo, Sallustio e Pompeo, Tiberio e Galba, per citarne solo alcuni, avevano posseduto splendide dimore che, tuttavia, per l’incuria degli uomini e l’ingiuria dei tempi erano andate progressivamente decadendo fino alla loro completa scomparsa, gli umanisti del Cinque-Seicento – primo fra tutti il già ricordato Enea Silvio Piccolomini e poi il “Commendatore” Annibal Caro – avevano indicato i luoghi dove far risorgere quelle fabbriche e quei giardini per una ripresa in chiave moderna di quel genere di vita e di usanze facendo così nascere la villa Belvedere degli Aldobrandini, villa Rufinella, villa Falconieri, villa Bracciano e la villa Conti, tanto per ricordare le più famose.
Di Marino ne parla, o meglio ne versifica, addirittura Giuseppe Gioacchino Belli che così lo immortala: «E m’aricorderò sempre a Marino / indove tutti l’anni annamio fora / d’ottobre a villeggià co’ la Signora / e ce stamio inzinent’a San Martino. / Li nun c’erano vini misturati», dando il giusto risalto a quella bevanda che da lì a poco avrebbe dato il nome ad una sagra che ancora oggi ad ottobre di ogni anno è meta privilegiata non solo di tutti gli abitanti dei Castelli ma anche di quelli della non tanto vicina Roma.
Monte Compatri, pigramente adagiato assieme agli altri insediamenti di Monte Porzio Catone, Rocca Priora e Colonna sulle estreme pendici settentrionali di quei rilievi di origine vulcanica generalmente noti come Colli Albani, si differenzia decisamente sia dagli altri più ridenti Castelli raggruppati attorno ai laghi di Albano e di Nemi, sia da Grottaferrata e da Frascati, particolarmente favorita dalla natura e dall’arte, per un non so che di selvaggio e al tempo stesso ameno che lo fa assomigliare ad un presepe; la cittadina, infatti, tutta arroccata su uno sperone di tufo a quasi cinquecento metri sul livello del mare e, protetta a mezzogiorno dalla vetta del monte Salomone che si eleva per altri duecento metri, domina a settentrione su tutta la sottostante valle del Sacco consentendo di spingere lo sguardo sino ai lontani Prenestini e Tiburtini; la città sembra non voler dare confidenza alla campagna, aiutata in ciò anche dalla natura impervia del terreno a ridosso delle prime case, e per giungere al centro abitato è necessario inerpicarsi per una ripida salita, unica via di accesso.
«Il primo giugno 1729 – scriveva Montesquieu – sono stato a Monte Porzio, villaggio che appartiene al principe Borghese; là era la casa di M. Porcio Catone che discendeva da una famiglia originaria di Tuscolo; nel villaggio c’è una chiesa molto bella di ottima architettura. Di là si vede tutta la Campagna romana ad ovest ed a settentrione, sino alla catena di montagne dove abitavano i Sabini: si vede Tivoli, Palestrina e verso il declivo dei colli a settentrione si vede il monte Soratte ed altri paesi ».
Agli inizi del Novecento, poi, Giuseppe Tomassetti riguardo appunto a Lanuvio si domandava per darsi subito dopo una esauriente risposta: «Chi non conosce quell’estremo lembo dei monti latini verso il mare, ove sorge al presente il piccolo comune di Civita Lavinia? Le sue brune torri rammentano l’età feudale, quando i signori Colonnesi vi esercitavano la sovranità. La tradizione popolare basata sulla confusione del nome di Lanuvio con quello di Lavinio, l’antichissima città marittima ora scomparsa, fa risalire ad Enea l’origine della modesta Civita»; e Massimo d’Azeglio quando approdò a Rocca di Papa una mattina di luglio del 1821, trascinando il suo somarello carico di cavalletto, cassette di colori, pennelli ed ombrelli, desideroso di trovare un luogo non molto lontano da Roma per riposare e lavorare in pace, prima ancora di iniziare a dipingere, questo attento scrittore-pittore quanto abile diplomatico, annotava nei suoi Ricordi che Rocca di Papa «è una delle più belle posizioni dell’Agro romano; in alto, la rupe con gli avanzi dell’antica rocca; sulla rupe stessa le prime e più antiche casucce appiccate, non si sa come, a uso vespai, alle irregolarità dello scoglio, dove poi questo, in certo modo, s’incresta al monte e comincia il declino più mite, principiano le case più moderne, che formano i lati d’una lunga via molto precipitosa, la quale scende ad un piccolo ripiano fuori del paese».
Grottaferrata, infine, l’abbazia dei religiosi greci dell’ordine di San Basilio, rimonta all’anno 1000 e presenta l’aspetto di una fortezza del XV secolo. Un bosco incantevole, un bel viale di olmi e di platani, con una graziosa fontana, rendono deliziosa questa solitudine. L’idea di solitudine ricorre spesso nelle descrizioni che viaggiatori di ogni tempo e nazione ci hanno lasciato di questo Castello; ore di cammino, a piedi o a dorso di mulo, portavano questi pellegrini della storia e dell’arte al maestoso, imponente monastero-fortezza, che sembrava crescere dal nulla al centro di un deserto verde. Il luogo che San Nilo aveva scelto per concludere la sua lunga fuga era ancora lì, ben munito e protetto. All’ombra dei torrioni e dei merli una luce di fede e cultura gettò per secoli i propri raggi splendenti ben al di là dell’oscuro intreccio dei boschi solitari dei dintorni. Un messaggio che chiunque percepiva, mettendo a confronto le fatiche del viaggio e lo stupore che si prova in particolare dinnanzi agli affreschi del Domenichino.
Tutte queste immagini sono la riprova che la romanitas – con questa parola intendendo l’interesse, la passione e l’amore per tutto quello che affonda le sue radici nella storia di Roma e della sua Campagna – più che una questione anagrafica sia sempre stata una scelta culturale; scelta che fecero, senza condizionamenti se non quello di conoscere meglio se stessi riscoprendo quelle che tutto sommato erano le radici di ogni cittadino di qualsiasi parte del mondo, i letterati e gli intellettuali appena ricordati ed una infinità di altri che, evidentemente la pensavano come Georges Séroux d’Agincourt che, per visitare Roma e la sua Campagna, sosteneva di avere «un itinerario di quattro ore per coloro che non possono fermarsi di più, e questo è particolarmente a uso degli inglesi alcuni dei quali amano vantarsi d’aver veduto Roma in questo spazio di tempo; ne ho uno di un giorno per quelli che hanno meno fretta; un terzo di una settimana, un altro ancora di quindici giorni, altri d’un mese, d’un anno, di tre anni, e finalmente uno di trentacinque anni, e questo è per il mio uso».
Ed alla fine del viaggio, quasi per eternarlo, annotavano in un taccuino le impressioni e le sensazioni che quei luoghi avevano suscitato in loro le cui pagine, a ben vedere, erano scritte in trasparenza e quindi vanno lette in filigrana.
Renato Mammucari, avvocato ed esperto d’arte del Tribunale, da oltre trent’anni si interessa del recupero e della giusta collocazione della pittura romana del Sette-Ottocento trascurata dalla critica ufficiale e precisamente di quel periodo che va ad esaurirsi nel 1940.
In tale attività ha curato l’allestimento di numerose Mostre dedicata a quei pittori che operarono a Roma in quel lungo periodo esaminandoli sotto diverse angolature da quella di illustratori delle  opere di D’Annunzio a quella di pittori della Campagna romana e delle Paludi pontine e degli Acquerellisti.
In occasione delle mostre allestite a Roma al San Michele e a palazzo Valentini, a Cortona, a Monaco di Baviera, al Museo di Sansepolcro, a Latina e ad Aprilia ha curato la stesura dei relativi cataloghi e così sono nate delle vere e proprie monografie sull’argomento come: I XXV della Campagna romana (Galleria San Marco, Roma Via del Babuino, Accademia Nazionale di San Luca); La Società degli acquarellisti (Palazzo Valentini, Provincia di Roma, Fondazione Besso); Le Paludi Pontine (in occasione del cinquantenario della fondazione di Latina, Palazzo della Cultura, Latina); I pittori dell’Imaginifico (Complesso monumentale San Michele, Roma e Villa Mondragone Università di Tor Vergata); Francesco Vitalini (Terrazza Cortina , Cortina d’Ampezzo e Fondazione Besso, Roma); A.J. Strutt (Villa Sforza Cesarini, Lanuvio); Onorato Carlandi (Galleria Belardi-Rumor, Roma);
I briganti (Cortona, Sansepolcro, Aprilia); I Castelli romani (Villa Desideri, Marino); La Roma dei Papi (Salone dell’Antiquariato, Cortona); E. Roesler Franz ed i pittori dell’Ottocento a Tivoli (Villa d’Este, Tivoli) sino all’Ottocento romano, a Viaggio a Roma e nella sua Campagna e al Settecento romano, volumi che racchiudono e compendiano tutti i suoi interessi.

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